2017: l’annus horribilis messicano

Si è chiuso un anno da dimenticare per il Messico, il peggiore degli ultimi vent’anni. Dai dati forniti dal Ministero degli Interni da gennaio a novembre 2017 le vittime di omicidio doloso sono state 26.573: in media 2mila persone uccise ogni mese.

In quattro Stati sui trentadue che compongono la federazione (Baja California, Guerrero, Estado de México e Veracruz) si sono concentrati il 30% della totalità di casi del 2017. Acapulco ha raggiunto il podio: è infatti la seconda città più violenta al mondo dopo Caracas.

Il 2017 ha superato, quindi, in violenza il 2011, l’anno passato alla storia come il più terribile a causa della guerra del narcotraffico.

E a questi numeri si accompagna la questione giustizia: secondo le medie attuali, probabilmente il 98% di questi delitti rimarrà impunito.

Stando ai dati forniti dall’Istituto di Statistica Nazionale in undici anni di lotta ai cartelli della droga ci sono stati 240mila omicidi e un quasi 35mila persone desaparecidos.

Prima della guerra al narcotraffico dell’ex presidente Calderon e dell’attuale Nieto il Messico non era un paese così pericoloso. Fino al 2007 i tassi d’omicidio erano ai minimi storici, intorno a 8 ogni 100mila abitanti, comparabili per esempio con quelli degli Stati Uniti.

Il presidente ha fatto di questa guerra il proprio cavallo di battaglia criminalizzando il consumo di droghe e ampliando con una nuovissima legge le funzioni dei militari nella pubblica sicurezza.

In un reportage pubblicato su The Washington Post con dati del Consiglio Nazionale contro le Dipendenze messicano, si evidenzia che in dieci anni le percentuali di persone che fanno uso di droghe sono raddoppiate.

Secondo il giornalista freelance e docente-ricercatore universitario in Messico Fabrizio Lo Russo quello al narcotraffico “è un conflitto interno, una guerra non dichiarata ufficialmente per non far scappare i turisti e gli investitori e non far scattare meccanismi di controllo internazionale”. Secondo il giornalista, infatti “non si tratta di una semplice politica pubblica di sicurezza ma di una vera e proprio guerra civile di tipo economico, in cui la parti belligeranti sul campo non combattono per motivi ideologici o politici ma per risorse ed economie criminali”.

Il nefasto 2017 si è chiuso nel paese Centramericano con una nuova legge della Sicurezza Interna. Con questo nuovo impianto legislativo i compiti tipici dell’esercito come garante della sicurezza nazionale si estendono alla pubblica sicurezza che, secondo la Costituzione messicana, è di competenza delle autorità civili.

Il timore degli osservatori, è che quando il presidente, con piena discrezionalità, emetterà una “Dichiarazione” di rischio per la sicurezza interna, “si potranno commissariare interi stati del Messico, limitare le libertà fondamentali e i diritti umani, secretare informazioni, mettere le polizie e gli inquirenti sotto controllo militare”.

La legge è stata  criticata da organizzazioni e istituzioni internazionali, tra cui l’Onu, la Commissione interamericana sui Diritti umani (Cidh), Amnesty International, il Parlamento Europeo, WOLA (l’Ufficio di Washington per l’America Latina), la Commissione Nazionale per i Diritti Umani, centinaia di Ong, unite nel movimento #SeguridadSinGuerra (Sicurezza senza guerra) e gruppi per la difesa dei diritti umani.

L’Onu in un comunicato ha dichiarato che “senza i dovuti controlli e l’obbligo di rendere conto a nessuno si rischia di scatenare nuove violazioni di diritti umani, come quando si assegnò all’esercito un ruolo da protagonista nella lotta contro la criminalità”.

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