Clima. La bambina e il gigante

Mentre Trump annunciava il ritiro dall'Accordo di Parigi, Greta Thunberg risvegliava la società civile globale, rivendicando il diritto a un futuro della propria generazione e di quelle a venire

di Elia Gerola

Ci è voluta un bambina sedicenne svedese, affetta dalla sindrome di Asperger per riuscire a scuotere la coscienza dell’Umanità e fare scendere in migliaia di piazze oggi 15 marzo la società civile globale. Il Cambiamento Climatico è la più grave crisi della breve, seppur intensa, storia che ha visto protagonista l’uomo sulla Terra. Greta Thunberg non fa che ripeterlo ormai da un anno, quando cominciò “lo sciopero della scuola per il clima”, una protesta condotta davanti al proprio istituto in Svezia chiedendosi: “Perché dovrei andare a scuola con il cambiamento climatico in corso?”  L’inerzia, l’inefficacia, l’indecisione e la conseguente inazione delle generazioni che ora governano il mondo stanno rubando il futuro della sua generazione e di quelle avvenire, sostiene la carismatica attivista, è quindi necessario fare qualcosa ora, qualcosa di non superficiale, ma profondo, perché spiega, anche le poche politiche realizzate sono state palesemente fallimentari.

Greta Thunberg

Il Vecchio Continente, grazie a questa carismatica bambina si è riscoperto improvvisamente faro di speranza, in un momento nel quale la lotta al cambiamento climatico è cruciale, ma sta subendo quello che Joseph Curtin, ricercatore del think-tank Iiea, ha definito come “l’effetto Trump”, che rischia di rendere vano anche l’Accordo sul Clima di Parigi, siglato 12 dicembre 2015, già fragile e di difficile pefezionamento. Il primo giugno 2017 infatti, la Casa Bianca annunciò l’intenzione di attivare l’articolo 28 del trattato e uscire da esso. Le ragioni addotte da Trump: il rischio di rallentare l’economia e di danneggiare il popolo americano e il suo benessere, causando disoccupazione e povertà.

Ora però, l’efficacia dell’Accordo di Parigi è in serio pericolo proprio a causa della decisione di Trump, come vi avevamo raccontato. Il Trattato internazionale negoziato sotto l’egida dell’Onu con la costante mediazione ed il supporto tecnico dell’Unfccc -che è l’agenzia Onu preposta allo studio del clima- mira a ridurre le emissioni di CO2 delle società e le economie mondiali. Vi hanno partecipato decine di organizzazioni non governative, scienziati, testimoni della società civile globale e rappresentanti di minoranze etniche e comunità locali provenienti da differenti regioni del mondo, oltre che ai plenipotenziari degli Stati. Il Trattato prende atto del consenso esistente tra il 99 per cento delle pubblicazioni scientifiche in materia climatica, che concordano sulle responsabilità dell’attuale mutazione climatica e mira innanzitutto a ridurre la quantità di emissioni antropiche di anidride carbonica (CO2) rilasciate nell’atmosfera. L’obiettivo è ridurre l’accumulo di gas e prevenire l’aumento dell’effetto serra, responsabile dell’innalzamento delle temperature medie terrestri. Secondo gli articolo 17 e 21, il fine è di limitare l’innalzamento ben al di sotto dei 2°C, possibilmente anche entro il grado e mezzo.

L’Accordo di Parigi, seppur limitato, è secondo molti analisti cruciale per la lotta internazionale al cambiamento climatico, poiché con i suoi 195 Stati firmatari, grazie alla sua elevatissima inclusività dovuta al sostegno trasversale riscosso (comprendente anche Russia e Cina) ed ai meccanismi miranti a garantire la cosiddetta giustizia climatica, porterebbe naturalmente gli Stati ad intraprendere un meccanismo virtuoso di politiche ed impegni ecologici auto-alimentanti, con una tendenza al rialzo. Secondo molti infatti, l’Accordo in sé non basterebbe comunque. Quello che ci si aspetta, come ben spiegato dal sito online Vox, è che gli Stati prendano molto sul serio il meccanismo di “impegno e revisione collettiva”  dei propri contributi alla lotta climatica: fornendo una lista di politiche pubbliche e disposizioni statali che intendono realizzare e che ogni 5 anni verrebbero valutate dalle altre Parti. Qualora gli impegni assunti non venissero rispettati o dovessero risultare insufficienti per raggiungere la riduzione di CO2, un meccanismo di “naming and shaming” ovvero di trasparente presa d’atto del fallimento/violazione e di reciproca accusa pubblica, dovrebbe riuscire a persuadere gli Stati a raddrizzare il tiro.

Non solo impegni però, ma anche incentivi e misure di sostegno per i paesi in via di sviluppo industriale ed economico atti a realizzare il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. L’Accordo ha inoltre rilanciato l’importanza del cosiddetto “Fondo Verde Climatico”. Mira a raccogliere circa 100 miliardi ogni anno entro il 2020 e dovrebbe sostenere l’industrializzazione e lo sviluppo sostenibili e con basso impatto ambientale nei Paesi africani, asiatici e sudamericani non ancora pienamente sviluppati economicamente. Il fine del fondo gestito dal Unfccc sin dalla sua istituzione nel 2010 è promuovere azioni di mitigazione del cambiamento climatico e di adattamento ad esso, tramite la promozione della resilienza delle comunità locali, ovvero della capacità di convivere con fenomeni atmosferici avversi di frequenza ed intensità sempre più elevate.

Non è però tutto oro quello che luccica e già prima dell’avvento di Trump, erano emerse alcune problematiche. L’Accordo non prevede chiari meccanismi di punizione in caso di mancato rispetto degli impegni presi. Inoltre i criteri per la definizione delle politiche di contribuzione nazionale e di partecipazione e redistribuzione del Fondo Climatico sono ancora in corso di definizione. La Conferenza delle Parti, COP24, tenutasi a dicembre 2018 in Polonia, mirava proprio a fare progressi su queste situazioni. In parte vi è riuscita, anche se come sottolinea l’Ipccc, con questi livelli di azione la temperatura aumenterà di 3°C. Disastri naturali, fenomeni meteorologi avversi, carestie, desertificazioni, scioglimenti dei ghiacci una volta considerati perenni, innalzamento del livello dei mari e conseguenti inondazioni, saranno tutti inevitabili ed altamente catastrofici.

Trump sta infatti provando a smantellare le politiche che gli Usa, sotto l’amministrazione Obama, avevano intrapreso per favorire la riduzione delle emissioni, chiudere le inquinanti miniere di carbone e diminuire la dipendenza da combustibili fossili, favorendo la riconversione verso fonti di energia alternativa, prima fra tutte quella solare. La presa delle lobby sull’attuale amministrazione sembra, però, essere molto forte e Trump sta andando esattamente in direzione contraria, dopo aver addirittura affidato la guida dell’Agenzia per la Protezione Ambientale americana ad un altro quasi-negazionista del cambiamento climatico, il suo fedelissimo Scott Pruitt, poi dimessosi nell’estate 2018.

Il rischio di una possibile uscita Usa dall’Accordo, che potrebbe avvenire per questioni legalisolo nel novembre 2020 e quindi dopo le prossime elezioni presidenziali, rischierebbe diminare la legittimità e la solidità dell’azione intrapresa dalla comunità internazionale. 

Official portrait of President Donald J. Trump.

Ciò che gli analisti temono è un effetto domino di defezioni eccellenti, come quella annunciata dal nuovo presidente brasiliano Bolsonaro, che si appresta anche a permettere ulteriori disboscamenti della Foresta Amazzonica, riducendo ulteriormente una delle fonti naturali di smaltimento della CO2. Cina e Russia hanno però espresso intenzione di onorare gli impegni presi, bollando il comportamenti Usa come irresponsabile. Non solo, ma l’azione generale potrebbe rivelarsi ridimensionata, basti pensare che gli Usa non hanno solo un enorme influenza a livello di “buone politiche”, ma sono anche responsabili del 15 per cento delle emissioni di CO2 mondiali, secondi solo alla Cina, come sottolineato dall’ong “Concerned Scientists”.

La conseguenza è quindi stata una scarsamente efficace levata si scudi da parte del mondo e di vari Stati Europei, prima fra tutti l’Ue, che ha in atto ben tre piani di politiche e traguardi che i pacchetti “2020, 2030 climate and energy” e la strategia di lungo periodo del 2050, con i quali la riconversione verso fonti di energia e metodi di produzioni a basso emissione di CO2 dovrebbero poter essere raggiunti progressivamente. Entro il 2030, ad esempio, la riduzione delle emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 1990 sarebbe stata del 22 per cento. Il duplice obiettivo del 2030 è invece quello di giungere ad un taglio del 40 per cento dell’emissione dei gas serra, arrivando invece a produrre in modo sostenibile e rinnovabile il 32 per cento dell’energia impiegata all’interno degli Stati Membri dell’Unione.

Piani di sviluppo tecnologico, riconversione economica, investimento infrastrutturale: queste sono le politiche di lungo periodo che gli Stati Europei, così come del resto del Mondo, si stanno impegnando a promuovere. Non è vero ciò che sostengono i negazionisti del cambiamento climatico o l’amministrazione Trump che l’Accordo di Parigi condannerebbe milioni di lavoratori alla disoccupazione. Piuttosto esso richiederebbe una loro riqualificazione e riconversioni industriali, magari non facili ed elettoralmente impopolari almeno nel breve periodo, ma realizzabili e secondo alcuni indispensabili.

Insomma, vi è moltissimo da fare, tantissimo in gioco, secondo alcuni la sopravvivenza della società umana e del pianeta Terra, per come gli abbiamo conosciuti. Si stima inoltre, come mostrato nella nostra infografica sul tema, che entro il 2060 se nulla cambierà vi saranno più di 200/250 milioni di soli profughi ambientali, in fuga da carestie, inondazioni, tempeste di sabbia, desertificazioni e conseguenti guerre e povertà.

Manifestazione a Berlino

Secondo l’ormai defunto filosofo tedesco Hans Jonas, la strada sarebbe una: adottare un’ “etica della responsabilità”, in base alla quale ogni nostra azione, politica e decisione dovrebbe essere vagliata in base alla sua capacità di garantire la sopravvivenza delle generazioni future e dell’abitabilità della Terra. Il consiglio di un grande scrittore indiano contemporaneo come Amitav Ghosh, è invece quello di creare nei teatri, al cinema, sui social networks e nella società globale una narrazione culturale e visiva della trasformazione del clima, che la renda finalmente comprensibile, permettendo a chiunque, anche ai meno interessati di oggi, di capire la gravità e la portata della sfida che abbiamo davanti.

Greta, lo ha detto, stiamo rubando a lei ed alle generazioni successive il futuro. Così questa bambina, che per ragioni di salute parla solo “quando è veramente necessario” si è ritrovata ad essere il vero gigante, ispirando un movimento globale che oggi, scioperando per il clima, chiede a tutti i governi mondiali maggiori responsabilità, lungimiranza, coraggio e determinazione nella lotta alla più grave crisi e minaccia esistenziale che l’Umanità abbia mai dovuto affrontare, il Cambiamento Climatico. Si potrebbe quindi dire che rispetto a Greta, i presunti giganti del mondo, come Trump, sembrano invece essere bambini, incapaci di comprendere la portata del problema o troppo irresponsabili per poterlo affrontare efficacemente.

Lasciatevi ispirare anche voi ascoltando le parole di Greta nel video sottostante:

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