Etiopia/Eritrea: prove di Pace in corso

Cosa è stato fatto e cosa resta da fare a nove mesi dalla firma dell'accordo che ha sancito, dopo vent’anni, la fine ufficiale delle ostilità

L’accordo di Pace raggiunto nel luglio 2018 tra Etiopia ed Eritrea ha rappresentato una delle più belle notizie dello scorso anno. A nove mesi da quella firma storica che ha sancito, dopo vent’anni, la fine ufficiale delle ostilità tra i due Paesi è necessario fare il punto su quanto di quell’accordo è stato messo in pratica e quanto resta ancora da fare.

Abiy Ahmed, il riformatore etiope. Fin dall’inizio del suo mandato da primo ministro (aprile 2018) ha dimostrato di avere un altro passo. Ha messo fine allo stato di emergenza che durava da mesi, ha proposto riforme economiche e sociali, fatto liberare centinaia di prigionieri politici e denunciato l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza governativi. Inoltre ha dichiarato la fine delle rivendicazioni territoriali su Badme (vedi mappa in basso). Elemento fondamentale per iniziare (e concludere) l’accordo di pace. 

Dopo la firma Etiopia ed Eritrea hanno: ripristinato le relazioni diplomatiche e gli scambi commerciali, aperto le frontiere al passaggio non solo dei beni ma anche delle persone, riattuvato le linee telefoniche che connettono i due paesi e i voli dell’Ethiopian Airlines per Asmara.

Accanto a questi fatti resta ancora molto da fare. I due Paesi avevano infatti ipotizzato l’avvio di accordi di cooperazione politica, economica, sociale, culturale e militare

Ma un ulteriore rassicurazione sulla pace arriva dalle origini dello stesso Abiy Ahmed. Il primo ministro appartiene infatti alla comunità Oromo, il più grande gruppo presente in Etiopia (il 32 per cento della popolazione) e, da sempre, tra i più emarginati ed esclusi . Inoltre i genitori di Abiy Ahmed professano due fedi differenti: il padre è musulmano, la madre cristiana. Ma non è tutto oro quello che luccica. Questa sua politica riformista sta infatti attirando le attenzioni del Fronte Popolare di Liberazione del Tigré, un partito politico contrario alla cessione del villaggio di Badme.

Tra le ‘riforme’ etiopi  c’è poi da segnalare la legge, approvata, all’inizio del 2019, che permette al milione di rifugiati di varie nazionalità che vivono nei circa venti campi profughi sul proprio territorio, di lavorare fuori dai campi. L’Etiopia accoglie nei campi profughi un grande numero di rifugiati, che una volta arrivati nel Paese dall’Eritrea vengono smistati in quattro campi profughi (Shimbela, Mai-Aini, Adi Harush ed Hitsats) che si trovano nella regione del Tigray, l’altopiano etiopico al confine con l’Eritrea. Prima della nuova legge dai campi profughi si poteva uscire legalmente solo in caso di gravi motivi di salute o per studi universitari. Era inoltre sempre necessario un pass governativo. Grazie a questa nuova disposizione i rifugiati potranno uscire dai campi profughi, frequentare scuole regolari, lavorare, aprire conti in banca, avere la patente.

L’adozione di questa legge – ha commentato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati – rappresenta una pietra miliare nella lunga storia di accoglienza di rifugiati da parte dell’Etiopia, giunti per decenni da tutta la regione”.

La nuova legislazione, a detta del capo della Commissione per gli investimenti etiopici, Fitsum Arega, fa parte del Job Compact, un programma da 500 milioni di dollari che mira a creare 100 mila nuovi posti di lavoro, il 30 per cento dei quali destinati ai rifugiati.

Ma se le riforme sono arrivate in Etiopia lo stesso non si può dire dell’Eritrea. Isaias Afewerki, presidente dal 1993, non ha dimostrato un cambio di passo. Il suo governo è considerato repressivo e autore di violazioni dei diritti umani: Afewerki è stato accusato dalle Nazioni Unite di crimini contro l’umanità. Nei giorni scorsi l’organizzazione Human Rights Watch si è detta preoccupata per la mancanza di progressi nel campo dei diritti umani fondamentali in Eritrea. Sotto accusa è soprattutto il servizio militare obbligatorio.

Il governo di Asmara – si legge in una nota della ong – non ha apportato cambiamenti significativi al suo servizio nazionale obbligatorio che recluta giovani eritrei per un numero illimitato di anni – spesso per più di un decennio – nonostante il decreto che limita ufficialmente la coscrizione a 18 mesi”.

“I coscritti continuano ad essere utilizzati per progetti commerciali, così come per svolgere compiti militari e civili, la loro retribuzione rimane inadeguata e persistono segnalazioni di abusi, compresa la tortura”. Per anni l’Eritrea aveva utilizzato l’ostilità con l’Etiopia come pretesto per le proprie azioni oppressive. Human Rights Watch ha definito quella eritrea “una delle più feroci dittature del mondo”, che gestisce 361 tra carceri e centri di detenzione. Anche la libertà di stampa è stata penalizzata e ad Asmara non ci sono più corrispondenti esteri della stampa occidentale dal 2010.

L’Eritrea resta uno dei Paesi più poveri del mondo, con un Pil pro capite di appena 800 dollari all’anno. La siccità persistente e il cambiamento climatico della regione, sta provocando una consistente perdita permanente di risorse naturali non fa che peggiorare una crisi economica ormai endemica. Secondo i dati Unicef di giugno 2017, 22.700 mila bambini al di sotto dei 5 anni verserebbero in uno stato di malnutrizione acuta.

Secondo gli osservatori per Etiopia ed Eritrea non ci sono ad oggi motivi per riprendere le ostilità, anche se c‘è poi chi ritiene che la Pace sia strettamente legata alla figura di Abiy Ahmed e che le condizioni potrebbero mutare se ci fosse un cambio di potere interno all’Etiopia.

(di Red/Al.Pi.)

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