Myanmar a processo per genocidio

Al Tribunale dell'Aia, la Premio Nobel Aung San Suu Kyi, si è difesa dalle accuse che riguardano il popolo rohingya.

di Elia Gerola.

E’ terminata ieri, giovedì 12 dicembre, la prima sessione del procedimento giuridico che vede lo Stato del Myanmar doversi difendere da molteplici capi d’accusa, riguardanti la violazione della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio,” adottata nel 1948 dall’Onu. Nella fattispecie, le autorità militari e civili birmane sono state accusate dalla Repubblica del Gambia di aver perpetrato, a partire dal settembre 2016, una serie di azioni genocidarie ai danni della minoranza entico-religiosa rohingya, nella regione del Rakhine, finestra birmana sul Golfo del Bengala e confinante con il Bangladesh. Per due giorni quindi, la delegazione gambiana, guidata dall’attuale Ministro della Giustizia Abubacarr M. Tambadou e quella birmana, capeggiata dalla pluri ministra, Consigliera di Stato e de facto premier Aung San Suu Kyi, hanno provato a convincere delle rispettive ragioni i 15 giudici della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, organo giudiziario supremo dell’Onu.

La corte è stata adita dal piccolo stato africano del Gambia, che con una popolazione per la maggior parte musulmana è anche membro dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci). Quest’ultima è un ente intergovernativo fondato nel 1969 in Marocco e dal 1975 dotato di una rappresentanza permanente al Palazzo di Vetro, che appunto mira a tutelare la popolazione mussulmana globale. Le sorti della minoranza etnico-religiosa dei Rohingya, di fede islamica, è risultata così cara ai 57 Stati membri dell’Oci, che hanno deciso di supportare e finanziare il procedimento intentato dallo Stato del Gambia.

L’accusa sostiene, in un documento presentato l’11 novembre 2019, che le operazioni di cosiddetta “clearance” ovvero di “riordiono/rimozione” a scapito dei Rohingya portate avanti dal Tatmadaw, (l’esercito birmano)  siano state talmente “diffuse”, “sistematiche”, “sproporzionate” e intenzionali, che  sarebbero appunto riconducibili alla fattispecie giuridica del genocidio. Non solo, ma rifacendosi ai criteri definitori di quest’ultimo, contenuti nell’articolo II della Convenzione che mira a prevenirlo, il Gambia argomenta che “gli atti commessi durante queste operazioni erano intesi alla distruzione dei Rohingya come gruppo, in tutto o in parte, tramite l’uso di uccisioni di massa, stupri e altre forme di violenza sessuale, così come di altri tipi di distruzione fisica -ad esempio- tramite l’incendio dei villaggi, con abitanti rinchiusi nelle case in fiamme.”

Le argomentazioni del documento gambiano si basano principalmente sui dati raccolti da una Fact-Finding Mission istituita dall’Unhcr nella primavera 2017, proprio per indagare sugli eventi avvenuti nella regione del Rakhine settentrionale. Gli eventi che sono bastati a scatenare l’intervento massivo delle forze di sicurezza birmane sono stati però due. La prima ondata risale all’autunno 2016, quando in virtù dell’attacco armato a delle guardie di frontiera da parte di un gruppo di Rohingya una serie di villaggi sono stati vittime di raid di violenza e distruzione, mentre la seconda risale all’estate 2017, quando dopo l’uccisione di 12 militari birmani, rivendicata dai ribelli islamisti rohingya dell’Arakan Rohingya Salvation Army come un atto di ritorsione, le operazioni di “cleansing” sono state riapprovate e intensificate. In entrambi i casi le violenze sono state ricondotte a forme di terrorismo di matrice religiosa e islamista, necessitante l’intervento militare immediato e massivo per essere debellato, la stessa Aung San Suu Kyi, ha fornito all’Aia dati ben diversi parlando di attacchi condotti da qualche centinaia di uomini armati alla volta e ridefinendo il significato di “cleansing” a purificazione/liberazione da insorgenti terroristi, accusando la stampa e gli analisti occidentali di aver strumentalizzato la traduzione del termine. L’immediatezza e l’intensità delle operazioni militari hanno però spinto vari analisti a sostenere che il governo ed i militari stessero semplicemente aspettando il minimo pretesto per agire, e risolvere quello che il comandante in capo delle forze birmane, il generale Min Aung Hlaing, avrebbe definito sprezzante come “l’annoso problema del Bengala“, riferendosi appunto alla presenza della comunità Rohingya nel Rakhine.

Da sottolineare è infatti come questa minoranza etnico-religiosa di fede musulmana viva una condizione di marginalizzazione sociale e discriminazione istituzionalizzata. Tra gli oltre 135 gruppi etnici riconosciuti dalla Citicenship Law del 1982, quello dei Rohingya è uno dei pochi rimasti deliberatamente esclusi. Così, quasi il 5% della popolazione dell’ex-Birmania è apolide, privo di diritti, malvisto dalla comunità buddista che rappresenta il 60/70% della popolazione, e non tutelato dal governo centrale che descrive e tratta i Rohingya alla stregua di immigrati stranieri, da ciò deriva l’appellativo “Bengala”, che viene considerata la terra d’origine di questo gruppo sociale, che si definisce discendente di antichi mercanti mussulmani stanziatisi ormai secoli fa lungo le coste birmane.

Secondo il Gambia, l’Unhcr e molte altre ong, compresa Human Rights Watch, la risposta sarebbe stata sproporzionata e proprio per questo volta a molto più del mero ripristino dell’ordine pubblico. Vista la precedente campagna di deumanizzazione effettuata su vari social media contro la comunità rohingya, che secondo il New York Times sarebbe appunto stata orchestrata direttamente dall’intelligente del Tatmadaw, accusato dalla testata americana di aver “incitato un genocidio su Facebook”, gli eclatanti numeri che seguono sarebbero solo la prova materiale del fatto che un “genocidio sta avvenendo sotto i nostri occhi,” come ha dichiarato il rappresentante gambiano all’inizio del processo, martedì. Secondo l’Unhcr ad oggi vi sarebbero oltre 900 mila rifugiati in campi profughi allestiti in Bangladesh, dei quali “solo” 18 mila erano già presenti prima dell’estate 2017. Inoltre coloro che non sono riusciti a fuggire sono per la maggior parte sfollati interni in Myanmar: circa 600 mila persone che stanno sopravvivendo solo grazie ad aiuti ed assistenza umanitaria internazionale. A causa delle violenze dell’agosto 2017 sarebbero invece morti 7802 individui, secondo un’inchiesta dell’ong Physicians for Human Rights, che ha anche confermato l’impiego della violenza fisica e sessuale come armi ai danni di persone rohingya. La vita nel Rakhine per gli sfollati e il ritorno nelle case natali per i rifugiati, sono inoltre sempre più complicati, per non dire impossibili. L’esercito birmano, come provato da immagini satellitari che confrontano la situazione pre-agosto 2017 con quella attuale, ha infatti raso al suolo interi villaggi rohingya, rimpiazzandoli con nuovi campi militari ed insediamenti per civili di altri gruppi etnici, così come ha confiscato innumerevoli campi, unica fonte di sostentamento di questa già poverissima comunità.

Come sottolinea però Rodion Ebbighausen (un editorialista della Deutsche Welle), dimostrare l’avvenimento del crimine di genocidio non è affatto facile a causa della specificità della norma che lo descrive; e anche se non impossibile, qualora l’accusa del Gambia venisse accolta dalla corte, i tempi giudiziari risulterebbero troppo lunghi e non compatibili con le necessità di azione immediata che la crisi umanitaria in corso richiede. Sicuramente, l’avvio del processo ha catalizzato l’attenzione internazionale sulla drammatica condizione dei Rohingya, e minato pesantemente la già fragile credibilità internazionale del Myanmar. Fortunatamente nelle prossime settimane la corte dovrà esprimersi anche su un’altra richiesta dell’accusa, che vista la contingenza di quello che ha definito un “processo genocidario” tuttora in corso e ad “elevato rischio genocidario,” come ripetuto all’inizio di dicembre anche dal capo delegazione Onu in Myanmar, necessitante quindi interventi immediati, ha suggerito alla Corte di emanare delle cosiddette “misure provvisorie di protezione”. Che potrebbero consistere nel richiedere al governo di Naypyidaw di assicurare in tempi brevissimi: maggiore trasparenza nella gestione della crisi in corso, cessare immediatamente ogni forma di violenza nei confronti dei Rohingya, astenersi dal realizzare azioni che potrebbero cancellare le prove materiali di quanto avvenuto ostacolando il corso

Aung San Suu Kyi

della giustizia futura, ed infine permettere il rimpatrio sicuro dei rifugiati.

Alle accuse di genocidio, ha risposto mercoledì, in un aula gremitissima, l’impassibile premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. L’ormai internazionalmente decaduta, ma nazionalmente osannata, paladina della resistenza nonviolenta birmana, ha respinto nettamente ogni accusa, sottolineando come il quadro della situazione sia ben “più complesso” e argomentando come lo Stato abbia agito “nell’interesse della sicurezza nazionale”, assicurando anche, che gli ufficiali militari responsabili di eventuali crimini, saranno debitamente puniti per ciò che hanno fatto. Parole pesanti quelle della leader birmana, dopo che l’ultima inchiesta, avviata nell’inverno 2016-2017, aveva portato al perdono di tutti gli ufficiali imputati. Ora la palla passa però ai giudici della Corte, che in qualche settimana dovrebbero esprimersi in merito alla richiesta gambiana di emanare delle misure protettive immediate e vincolanti, a tutela dei Rohingya e delle prove che potrebbero appunto permettere di incriminare i responsabili di quello, che ormai sempre più analisti e osservatori internazionali, definiscono un caso  “giuridicamente indifendibile“.

 

 

 

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