Iraq. Il lockdown incatena (ma non ferma) la protesta

Pandemia, formazione del nuovo governo, caduta del prezzo del petrolio, guerra e rivolta sociale: un'intervista per capire cosa accade nel Paese

di Alice Pistolesi

Il lockdown è arrivato in Iraq in un momento di grande attivismo della società civile, che da ottobre 2019, ha animato le strade e le piazze del Paese per chiedere la fine della corruzione, della disuguaglianza. L’attenzione principale, in questo momento, è alla formazione del governo. Il terzo tentativo in pochi mesi. Il numero dei manifestanti a piazza Tahrir a Baghdad e nelle piazze delle altre province è diminuito con la diffusione della pandemia nel Paese ma i manifestanti a Baghdad e nelle province del centro-sud dell’Iraq sottolineano che questi numeri aumenteranno al termine della crisi, che il movimento di protesta non si sta ancora esaurendo e che stanno studiando nuovi metodi si lotta.

L’Icssi, Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, il progetto nato da attivisti contro la guerra nel 2003 e sostenuta in Italia dalla ong Un Ponte per, ha raccontato la rivolta nata nell’autunno 2019 ed è diventato il sito più seguito su quanto stava succedendo tra la società civile irachena.  Con Ismaeel Dawood, uno dei fondatori dell’iniziativa e operatore di Un ponte per, abbiamo parlato del delicato momento del Paese.

Partiamo dalla sicurezza, quali sono i fronti ancora aperti?

In Iraq i fronti di conflitto tuttora aperti non mancano: nel Kurdistan Iracheno proseguono i bombardamenti turchi nelle montagne irachene dove è presente il Pkk e persistono gli attacchi del sedicente Stato Islamico. Anche se gli episodi sono abbastanza rari non si può dire che la minaccia sia del tutto sparita. Il rischio è che possa aggiornarsi. Sappiamo benissimo che ingiustizia, disuguaglianza e conflitti sociali favoriscono l’estremismo.

In questo scenario come incide il crollo del prezzo del petrolio?

Si tratta di un problema molto serio per l’Iraq. Il reddito del Paese proviene dal petrolio, tutti i dipendenti pubblici, che sono la stragrande maggioranza dei lavoratori, sono pagati con i proventi del petrolio. In Iraq il settore privato è minimale. Il bilancio dello Stato va calcolato in base a quanto petrolio si vende in un anno, perché non c’è altra forma di tassazione. Il bilancio preventivo per il 2020 aveva calcolato il barile a 56 dollari, mentre ora si aggira attorno ai 20. Questo significa milioni di stipendi a rischio, così come la capacità del Paese di affrontare la pandemia, dal momento che le risorse, anche per questo, sarebbero dovute arrivare dal petrolio.

Che attività sta portando avanti in questa fase l’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative?

La nostra idea è quella di lavorare con i giovani per far avere loro un ruolo attivo nella società. Proponiamo attività legate allo sport, all’arte, all’ambiente. Crediamo che questa possa essere una risposta per dare un’altra possibilità ai giovani che non sia l’estremismo. Una risposta che miri a cambiare la società.

Come si è organizzato il movimento in questa fase di lockdown?

I ragazzi e le ragazze che popolavano le piazze stanno cercando varie modalità creative per occupare tempo ed energie. Stanno organizzando webinar per far conoscere vari aspetti dell’Iraq nel mondo, turorial di sport da fare a casa e anche la discussione sul futuro del Paese sta andando avanti. Abbiamo notato che in questa fase di fermo ci sono molti ancora più attivi di prima.

Le richieste che arrivavano da piazza Tahrir, quindi, continuano?

I punti di vista della piazza sono diversi ma la sfida che condivide è ancora quella di superare la corruzione e il regime settario. Il popolo iracheno ha voglia di superare le divisioni tra sciiti, sunniti e curdi. Purtroppo la violenza non si è fermata. Pochi giorni fa un gruppo armato ha aperto il fuoco sulla piazza, dove ci sono ancora alcuni manifestanti in sit-in permanente, e hanno ucciso e ferito gli attivisti.

*In copertina una foto tratta dalla pagina Facebook dell’Icssi

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