Il Rojava e la Pandemia

Nel Nord Est della Siria non c'è un solo letto che possa curare pazienti covid-19 gravi. Come ci si prepara in un'intervista dal terreno

di Alice Pistolesi

Il Nord Est della Siria è una delle aree più in difficoltà del mondo, dal punto di vista sanitario, umano, sociale. Luca Cafagna, operation manager della missione Nord Est Siria per la Ong Un Ponte Per, ci fornisce un quadro di quanto sta accadendo nell’area del Rojava: come gli operatori si stanno preparando alla pandemia e come è la situazione dal punto di vista della sicurezza.

Sicurezza sempre in bilico e che, ad Afrin, nel Nord Ovest del Paese, è ancora più lontana. L’ultimo attentato, del 28 aprile, consegna un bilancio drammatico con la morte di almeno 40 persone, tutte civili, compresi 11 bambini. L’attentato è stato compiuto nel centro della città, controllata dal 2018 dalle forze turche alleate con alcuni gruppi di ribelli siriani. Il Governo turco ha indicato come responsabili le autorità curdo-siriane, che hanno però respinto le accuse e hanno puntato il dito contro la stessa Turchia. Nella vicina Rojava, invece, nonostante i motivi di scontro non manchino si è, almeno per il momento, concentrati sulla questione sanitaria.

Come è la situazione dal punto di vista della sicurezza nel Rojava, dove i curdi, nonostante l’offensiva turca dell’autunno 2019, mantengono il controllo politico e il loro esperimento di confederalismo democratico?

Gli scontri nell’area attorno alla ‘safe zone’ creata dalla Turchia restano ma sono di bassa intensità: non è attiva l’aviazione. Il nostro sforzo e la nostra attenzione va tutta nell’aiuto alla popolazione in difficoltà, che sta subendo le conseguenze di nove anni di guerra ininterrotta e che non può certo affrontare una pandemia.

Che tipo di attività svolgete sul campo con Un Ponte Per?

Un ponte per è presente dal 2015 nel Nord Est della Siria. Abbiamo iniziato con l’invio di medicinali e materiali sanitario dall’Iraq, dove la ong, opera da anni. Da lì abbiamo consolidato il nostro intervento e oggi insieme alla Mezzaluna Rossa Kurdistan gestiamo 20 centri di salute primaria e portiamo avanti progetti rivolti alle donne e lavoriamo a fianco della comunità locale per la gestione dei rifiuti e la conservazione ambientale.

Come state vivendo la pandemia da Covid-19?

Ci siamo resi subito conto che in un Paese distrutto da 9 anni di guerra con un sistema sanitario collassato la diffusione del virus sarebbe potuta essere strage. I casi confermati sono ancora pochi e non abbiamo ancora una visione chiara del fenomeno. Nei campi per sfollati del Nord Est il distanziamento sociale è molto difficile, così come nelle situazioni di maggiore marginalità. La stragrande maggioranza della popolazione vive in estrema povertà.

Noi ci stiamo muovendo in due direzioni: con 200 operatori per la prevenzione ‘Community Health Workers’ che stanno portando avanti campagne di sensibilizzazione verso la popolazione (lavarsi le mani, distanziamento sociale, automonitoraggio dei sintomi) e offrendo supporto alla Mezzaluna Rossa per la realizzazione di strutture adatte al trattamento dei pazienti affetti da Covid.

Ci stiamo adoperando per curare i casi moderati che hanno bisogno di terapia con ossigeno e anche per chi avrà bisogno di ventilazione assistita. Stiamo lavorando all’allestimento di 42 letti per i casi moderati e 18 per la terapia intensiva. Ad oggi in tutta l’area non ci sono letti di terapia intensiva che possono trattare casi di covid-19 gravi.

Che tipo di monitoraggio dei casi viene effettuato nel territorio dove operate?

La capacità monitoraggio dell’Oms qui è molto bassa perché è difficile reperire tamponi e fare il tracciamento dei contatti dei positivi. L’area è abitata da 3 milioni di abitanti che vive in situazioni estreme. La struttura sociale poi non aiuta perché in una stessa casa convivono nuclei familiari con tre generazioni. Per proteggere i soggetti più vulnerabili ci stiamo adoperando per suddividere le abitazioni ed isolarli dal nucleo familiare, pur restando in casa. Stiamo cercando di capire se ci sono casi e come tutelarli.

Che tipo di risposta è stata attuata per prevenire i contagi?

E’ stato imposto un coprifuoco molto stringente. Si può uscire solo dalle da 8 alle 12 ma solo per spostamenti essenziali. Da parte nostra stiamo tentando di limitare il più possibile i movimenti e siamo pronti anche all’autoisolamento, se serve. Abbiamo ridotto la nostra presenza di staff espatriato quasi al solo personale medico. Per noi l’importante è rimanere a fianco delle popolazioni, mantenere quella solidarietà internazionale che non può mancare, in questa come in altre fasi.

 

La clinica di Areesha (foto Un Ponte Per)

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