Bombe e segreti

di Emanuele Giordana

Dopo una settimana in cui l’area del raid di giovedi 13 aprile era sigillata dall’esercito americano, ora anche i militari afgani e i giornalisti possono visitare il sito dove è esplosa la super bomba Moab nell’Afghanistan orientale. Viene da chiedersi come mai nessuno abbia ancora invocato una commissione di indagine indipendente in questa terra martoriata da quello che appare, più che una bomba giustiziera, un crimine contro l’umanità e il pianeta.

Soltanto venerdi l’esercito afgano ha potuto entrare nell’area dove, giovedi scorso, è stata sganciata la bomba da 11 tonnellate di esplosivo che gli americani hanno sganciato nel distretto di Achin, nella provincia orientale di Nangarhar. Ma alcuni video girati nei dintorni a due giorni dallo scoppio e i primi che ora cominciano a girare dopo che gli americani hanno tolto i sigilli dall’area del bombardamento, mostrano le prime distruzioni e gli effetti di un ordigno considerato secondo solo alla bomba atomica: il più potente ordigno non nucleare i cui effetti sono ancora segreti e probabilmente tali rimarranno. Conditi da dichiarazioni, dati e simil certezze – tra cui le “scuse” di un alto comandante americano per possibili vittime civili – che conviene continuare a prendere con le molle.

Verità o bugie?

Le mezze bugie, quando non le aperte falsità, sono una costante della propaganda di guerra e l’Afghanistan non fa eccezione. E eccezione non fa la vicenda della GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast (Moab), la madre di tutte le bombe. Il refrain, in attesa di un rapporto ufficiale definitivo sugli effetti della bomba, è stato fin dall’inizio che l’ordigno non ha causato vittime civili, dato certificato anche dal ministero della Sanità. Ma alcuni video girati fuori dall’area recintata dagli americani e immediatamente vicini alla zona della deflagrazione, mostrano cadaveri con segni evidenti di ustioni, case distrutte e un terreno violentato dal calore e da uno spostamento d’aria che, dicono le cronache di quella bomba, può uccidere anche a grande distanza. Venerdi scorso però, a poche ore dall’esplosione, gli americani hanno sentito il bisogno di un’excusatio anticipata nel caso di “possibili vittime civili”. Lo racconta Luca Lo Presti, presidente della Onlus Pangea, una delle poche organizzazioni italiane (con Emergency) rimaste ad operare in Afghanistan e che, a Kabul, ha progetti di microcredito e protezione di bambini e donne. “La notizia della bomba l’ho avuta dall’Italia la sera di giovedi – dice Lo Presti –   nonostante fossi a Kabul dove quella sera ho dormito da una famiglia afgana. Sentivo una pena incredibile a vedere i fragili corpi di quei bambini riposare ignari nei loro letti. Poi, il giorno dopo, vedo in televisione un alto grado dell’esercito americano chiedere scusa nel caso la bomba avesse prodotto effetti collaterali sui civili…”. Ma di civili morti non si parla e dall’area blindata escono notizie col contagocce mentre l’ex presidente Karzai – l’unico ad alzare la voce – accusa il governo (che ora dice addirittura che la bomba è stata sganciata sotto la sua supervisione) di aver rinunciato alla sua sovranità territoriale per consentire a Trump di testare nuovi ordigni.

Ma quel che più appare comico, se non del tutto tragico, è che le autorità hanno fatto nomi, cognomi, origine etnica e ruolo nelle organizzazioni eversive (tra cui i talebani pachistani) di alcuni tra i novanta cadaveri di appartenenti allo Stato islamico rimasti sotto la bomba sganciata sul villaggio fantasma di Assadkhil nell’area conosciuta come Mohmand Dara. Come abbiano ritrovato corpi o anche solo ossa, e dunque il Dna, di queste vittime è un vero mistero che gli effetti della bomba, da quel poco che si vede nei primi video che circolano, rendono ancora più che tragicomico.

E mentre la guerra infuria viene da chiedersi come mai nessuno abbia ancora invocato una commissione di indagine indipendente in questa terra martoriata da quello che appare, più che una bomba giustiziera, un crimine contro l’umanità e il pianeta.

Un nuovo Grande Gioco

In Afghanistan c’è una corsa al rialzo: a chi, si potrebbe dire, la spara più grossa. Con la differenza che qui non sono battute e boutade ma proiettili veri che uccidono e feriscono in una terra dove il “Nuovo Grande Gioco” sembra non solo ritornato prepotentemente alla ribalta ma vicino al punto più basso della sua tragica storia. Una storia centenaria se il Grande Gioco tra lo Zar di tutte le russie e la Corona britannica iniziò nell’800 per poi proseguire, nel secolo scorso, con la Guerra Fredda e adesso con un nuovo episodio il cui terreno di conquista è sempre quello: l’Afghanistan e la porta maledetta tra l’Asia centrale, il Medio oriente e il subcontinente indiano. La riedizione di un gioco condotto con l’usuale brutalità e meschinità che l’ha sempre contraddistinto.

La corsa al rialzo ha come protagonisti diversi attori: l’azione di venerdi a Balkh da parte dei talebani sembra indicare il tentativo non solo di affermare la superiorità militare nei confronti del governo e dell’esercito nazionali, ma anche di dimostrare agli affiliati al Califfato di Al-Bagdadi (che sei  settimane fa hanno ucciso 50 soldati nell’ospedale militare di Kabul a due passi dall’ambasciata americana)  che il jihad contro l’invasore stranieri e i suoi alleati afgani è roba loro e non di questi nuovi guerriglieri in parte stranieri, in parti desunti da ex talebani spesso espulsi dalle file del movimento che fa capo a mullah Akhundzada.

Americani e russi

Ma i due veri protagonisti sembrano al momento ancora i vecchi attori della Guerra Fredda che, cambiati di poco gli abiti di allora, si contendono la scena centroasiatica e dunque l’Afghanistan, il suo boccone più succulento. La bomba sganciata giovedi, prima ancora dei militanti del Califfato, è sembrata in realtà diretta altrove per affermare la supremazia degli Stati Uniti nei confronti della Russia di Putin che, in quelle ore, stava preparando il punto di arrivo di una maratona diplomatica durata almeno quattro anni. Venerdì mattina infatti, i delegati di Cina, India, Pakistan, Afghanistan e delle cinque repubbliche centroasitiche dell’ex Urss dovevano incontrarsi per una conferenza internazionale proprio sul futuro dell’Afghanistan cui anche Washington era stata inviata e a cui aveva sdegnosamente rifiutato di partecipare. Questa offensiva russa, iniziata negli ultimi anni dell’era Karzai e proseguita pur con molte difficoltà, nell’era Ghani-Abdullah (i due “copresidenti” attuali), ha molto infastidito gli americani. La bomba non sembra dunque una coincidenza ma, come l’attacco ieri dei talebani per mostrare i pugni a Daesh, la sottolineatura di una primogenitura sul Paese dell’Hindukush. “Roba nostra, sembra aver detto la  GBU-43/B Moabc on i suoi 11mila chili di esplosivo.

Pachistani  afgani, i tradizionali protagonisti di questa guerra locale, sembrano invece, in questo momento, del tutto in sordina.  Al netto dei litigi tra le due capitali, all’ordine del giorno con vigore ormai da due anni, entrambi sembrano aver ormai perso del tutto il controllo della situazione. Islamabad è stata bypassata da russi e americani che  trattano, più o meno segretamente direttamente con la guerriglia, e Kabul è ormai così schiacciata sulle posizioni di Washington (da cui spera di ricevere altro denaro e nuove forze militari) che sembra ormai davvero solo una marionetta in mani altrui. Quanto alla Nato, anche l’Alleanza di volenterosi (tra cui mille soldati italiani di stanza a Herat) sembra aver ormai totalmente lasciato agli americani ogni strategia senza nemmeno salvare le apparenze, come ai tempi della missione Isaf. Ora la missione Resolute Support sembra solo la misera foglia di fico su decisioni che si prendono a Washington e assai poco a Bruxelles. Dove al massimo è richiesto di rispondere soltanto “Signorsì”.

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