Un sorriso e un’oliva, la faccia del Libano che accoglie

di Alice Pistolesi

C’è un Libano che accoglie e che si adopera per rendere la permanenza dei siriani in fuga dal conflitto il meno traumatica possibile.

Per questo lavora Aida Hussein, 30 anni, direttrice del Nabaa Center per Basmeh e Zeitooneh, (Un sorriso e un’oliva) l’ong che in Libano lavora con i rifugiati siriani.

Aida, ospite al Meeeting Internazionale Antirazzista organizzato dall’Arci a Cecina, è nata a Beirut ma non è cittadina libanese perché di padre palestinese: la cittadinanza in Libano si trasmette solo per via paterna. Aida è quindi una rifugiata che odia definirsi e sentirsi tale nel Paese in cui è nata e cresciuta.

Aida è entrata a lavorare nell’associazione nel 2014, quando sentì una vera e propria chiamata: “con il proseguire della crisi provocata dalla guerra capii che dovevo fare qualcosa”.

“Prima di lavorare per l’associazione ho fatto l’insegnante per cinque anni. Avrei voluto fare l’avvocato ma, anche se avrei potuto studiare legge, essendo palestinese non avrei trovato lavoro”.

Uno dei problemi, infatti, secondo Aida per i rifugiati palestinesi prima e siriani ora è il lavoro.

“I siriani oggi hanno solo tre possibilità occupazionali: possono lavorare come contadini, come manovali e come addetti alle pulizie. Prospettive non appaganti per giovani istruiti o artisti o medici che non possono lavorare con i propri diplomi. Questa è una delle ragioni che li rende frustrati e che li spinge ad abbandonare il paese”.

Molti altri sono i problemi di accoglienza per un Paese di 4,5 milioni di abitanti che ospita ad oggi circa un milione di siriani e oltre 450mila palestinesi.

Un altro problema è infatti muoversi ed avere la documentazione che riconosca la propria residenza in Libano.

“In molti casi – prosegue Aida – i siriani sono bloccati nei campi, come per esempio a Shatila. Il 70% di loro non è in regola a livello burocratico e se si sposta viene fermato. Nel Paese sono dislocati infatti vari check point controllati dall’esercito libanese”.

Nella zona di confine con la Siria i rapporti tra i due stati erano buoni anche a livello commerciale ma Aida racconta che molti negozi gestiti da siriani oggi sono stati chiusi.

Un’altra questione è quella della scuola e dell’istruzione. In Libano ad oggi c’è un numero chiuso di bambini rifugiati ammessi nelle scuole pubbliche. “La scuola non è pronta e gli insegnanti non sono preparati ad accogliere nelle scuole migliaia di bimbi siriani. Inoltre sono moltissimi i casi di bimbi trattati male nelle scuole, che anche se ammessi lasciano dopo pochi mesi”.

Per tutti questi motivi sul territorio libanese esistono realtà come quella di Basmeh e Zeitooneh, organizzazione che occupa ad oggi 300 persone.

L’associazione è nata nel 2012 per lavorare con i rifugiati siriani in più contesti. Moltissime sono infatti le attività che svolge.

“Con i progetti di sviluppo abbiamo rinnovato delle case a Shatila e in altre aree abbiamo progetti di assistenza. Supportiamo persone tramite l’assistenza in particolare durante le situazioni di emergenza. Abbiamo un workshop per le donne che dà l’opportunità di sostenere finanziariamente attraverso piccole attività imprenditoriali le famiglie e che consente di incontrarsi nei centri. Ci sono  persone a Shatila, nella valle della Beqa e a Tripoli, che hanno aperto piccole imprese attraverso le quali mantengono le proprie famiglie”.

“Ci occupiamo anche di formazione per donne, uomini e giovani analfabeti che hanno bisogno di sostegno in inglese, arabo, informatica, competenze per parrucchieri e simili.”

“Inoltre abbiamo un centro di educazione informale che ospita 600 bambini che studiano sul programma scolastico libanese. Stanno imparando inglese, arabo, francese, matematica e scienze. Questo non dà loro una certificazione ufficiale ma è un modo più interattivo di insegnare.

“L’organizzazione in cui lavoro ha anche creato un centro di informazione per le persone che hanno bisogno di servizi e non sanno dove andare”.

Per Aida e per la sua metà palestinese iniziare a lavorare con questa realtà è stato naturale ma il rapporto tra le due popolazioni in fuga non è spesso facile.

“I palestinesi sono molto organizzati sul territorio, i partiti a loro riferiti sono forti e potenti. In più, come al solito, essendo che le risorse non sono infinite ognuno punta ad avere sostentamento per il proprio popolo. Anche per la nostra associazione i fondi sono un problema perché ogni volta che finiscono i finanziamenti dobbiamo fare affidamento sul denaro che viene dall’Europa, dagli Stati Uniti o da altri Paesi”.

Ma oltre al lavoro, alla burocrazia, alla scuola, ai fondi c’è secondo Aida un’ulteriore sfida da compiere.

“C’è da lavorare sull’immagine del rifugiato. Molti miei amici per esempio non vogliono essere visti come rifugiati o persone bisognose. Siamo esseri umani e non vogliamo essere etichettati, abbiamo il diritto di vivere, lavorare e muoverci”.

Come sarà quindi il futuro dei rifugiati siriani?

“Spero non abbiano lo stesso destino dei rifugiati palestinesi in Libano. Quello che avviene nei campi e negli insediamenti informali è già avvenuto con i palestinesi nel passato. Ora non tutti i palestinesi sono integrati nella società e devono confrontarsi con un sacco di problemi, come lo spaccio e il traffico di armi. Se non vogliamo che la situazione sia la stessa dei palestinesi le autorità devono dare loro i propri diritti per avere una vita normale e tornare in Siria quando la guerra finirà”.

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