DOSSIER ATLANTE – Anatomia delle guerre nel mondo. Intervista a Raffaele Crocco di Alessandra Montesanto per Assaman.info

 

E’ stata pubblicata da poco la terza edizione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo – Sintesi dei conflitti e delle missioni presenti sul nostro pianeta – per Terra Nuova Edizioni – edizione che quest’anno è stata doverosamente dedicata a Vittorio Arrigoni.

Abbiamo rivolto alcune domande ai curatori del volume e ad alcuni reporter che operano in Libia, Afghanistan, Mali e Colombia per dare un’idea ad ampio raggio sul loro lavoro e sulle notizie riportate nell’Atlante. Raffaele Crocco, attuale giornalista Rai, per anni inviato a coprire conflitti in tutto il mondo, è l’ideatore del progetto. Tra i fondatori di Peacereporter, Crocco è direttore dell’Atlante.

Quando e come nasce l’idea dell’Atlante?

 L’idea dell’atlante era nella mia testa da anni, più o meno da quando ho iniziato ad occuparmi di esteri attivamente, a metà degli anni ’80. Mi rendevo conto che, semplicemente, mancava un “luogo”, un “contenitore” che raccogliesse in modo semplice le informazioni necessarie per capire quanto stava accadendo nel mondo in un dato momento. Poi, nel 2008, ho avuto l’occasione di mettere assieme i pezzi del progetto, trovando i giornalisti giusti, la formula editoriale, quella societaria – l’associazione, quindi senza fini di lucro – e, soprattutto, le risorse che servivano per pubblicare un lavoro così complesso e costoso. Fortunatamente, hanno aderito – oltre alle donne e agli uomini che ci lavorano – organizzazioni come l’Onu, l’Unhcr, l’Associazione Ilaria alpi, l’Asal, che mettono a disposizione i materiali. Senza dimenticare i tanti enti locali che finanziano il progetto e lo fanno vivere sul territorio.

L’Atlante è una pubblicazione davvero ricca di informazioni e di approfondimenti: avete una linea editoriale precisa? E qual è – se c’è – il vostro target di riferimento?

 La linea editoriale è semplice: siamo giornalisti, facciamo il nostro mestiere. Vuol dire raccontare ciò che accade senza dare un giudizio, una valutazione, ma mettendo assieme i pezzi per dare la migliore informazione. Tutto questo richiede grande rigore, precisione nella scelta delle parole e delle fonti e mente libera da pregiudizi. La formula dell’Atlante, in questo, ci aiuta, perché è rigida e ci costringe a scegliere continuamente come e cosa dire. L’obiettivo è fare informazione, appunto, per dare ad ognuno la libertà di decidere che pensare della guerra e di ciò che accade, per aiutare tutti ad esercitare il proprio “diritto di cittadinanza”. Per questo, il nostro target principale sono i giovani. Ci rivolgiamo soprattutto a loro.

Da chi è composta la vostra redazione? E vi avvalete anche di collaboratori esterni?

Siamo in qualche modo tutti redattori e tutti collaboratori esterni, perché a gestire il progetto è un Associazione. Questo vuol dire che nessuno guadagna un euro dal lavoro per l’Atlante. In realtà, poi, c’è ovviamente un gruppo più ristretto – quattro persone – impegnato nell’attività quasi a tempo pieno. Complessivamente, però, sono 35 le persone che scrivono, pensano, fotografano per realizzare, ogni anno, il libro.

Esiste, secondo voi, un problema nel mondo dell’informazione, in particolare sui temi di geopolitica? Qual è il vostro obiettivo come mezzo di comunicazione cartaceo e on-line?

Certamente esiste un problema nel mondo del’informazione italiano rispetto a tutto ciò che è “esteri”, insomma che viene da fuori. Siamo terribilmente poco interessati, i media parlano fondamentalmente della politica del Paese, sempre e della cronaca. Manca una cultura degli esteri, non crediamo, non pensiamo, vi siano legami fra quanto può accadere in Africa e la nostra vita quotidiana e quindi, la ignoriamo. Forse non è scollegato a questo il fatto che gli italiani – soprattutto i giovani – viaggiano molto poco e sono comunque scarsamente interessati a conoscere altre lingue. Questa cultura si riflette sui mezzi di informazione e in un rapporto causa – effetto, non so di chi sia la responsabilità. Noi, come gruppo di lavoro, tentiamo di metterci nel mezzo con uno strumento diverso, l’Atlante appunto, incuriosendo i giovani e, soprattutto, andando da loro. Abbiamo avuto, in tre anni di lavoro, centinaia di incontri nelle scuole italiane e credo che questo sia ancora oggi il “metodo informativo” più efficace.

 Siete arrivati al terzo anno di pubblicazione: potete fare un bilancio e quali sono i vostri progetti futuri?

Sono stati tre anni in crescita, con risultati che forse non ci aspettavamo. Questo è positivo, ovvio, ma credo che siano altre le cose belle accadute. La prima è proprio nel rapporto con le scuole: abbiamo avuto la conferma che i giovani sono in gamba, attenti, capaci e hanno voglia di sapere. Bisogna solo mettersi lì ed ascoltare ciò che dicono, per trovare degli stimoli comuni. La seconda è che attorno all’atlante si è creato un gruppo di lavoro bellissimo, di professionisti con storie ed età differenti, ma con la voglia di mettersi in gioco e di “fare militanza” con questo mestiere. Questi sono già due buone ragioni per andare avanti. I progetti futuri sono tanti. Ora abbiamo appena allestito una mostra fotografica con Fabio Bucciarelli, fotoreporter torinese premiato come miglior fotografo europeo del 2011 e autore della nostra copertina. Vorremmo continuare a finanziare proget6ti e idee, oltre a trovare soldi per chi ne ha bisogno, come stiamo facendo con la campagna di solidarietà alla Somalia dell’Unhcr. Questo è e deve essere un grande laboratorio, in cui sperimentare forme di comunicazione e possibilità. Per ora ci siamo riusciti.

Ma cos’è la guerra per chi la racconta? Raffaele Crocco parla della conflitto colombiano, delle difficoltà nell’affrontare il viaggio e il disastro della “democrazia esportata” oltre confine.

Quando vi recate “sul campo” a chi vi appoggiate (per es. per entrare in contatto con le persone da intervistare? Sicuramente farete un lavoro preparatorio prima di partire… Potete raccontare un momento in cui vi siete trovati in difficoltà?

E’ difficile parlare di una comportamento standard. Ogni viaggio e ogni Paese presentano situazioni differenti. A volte si arriva dopo aver preparato il viaggio, aver preso contatti. Altre volte ci si ritrova nelle situazioni nel giro di poche ore e la rete di contatti la si costruisce sul terreno, con pazienza. L’importante è andare sapendo, sempre, che si è a casa di altri e che non si combatte una guerra propria: questo vuol dire che noi – giornalisti, reporter – dopo un po’ andiamo via. Chi invece, ad esempio in Colombia, vive fra le mine anti uomo dei campi di coca o nei villaggi sequestrati dalla guerriglia resta. Quindi, ci vuole tranquillità. Difficile anche parlare di momenti di difficoltà: sono troppi

Da chi è formata la troupe, nel caso in cui vengano girati i video-documentari?

 Ormai le troupe sono sempre più leggere: è già un miracolo se ci sono giornalista e operatore. Questa funziona se si va come dipendenti di una televisione. Come free lance la tendenza che il giornalista gira anche le immagini, così come nel caso dei giornali chi fotografa e chi scrive sono la stessa persona.

Cosa pensate dell’espressione, spesso usata, “Esportare la democrazia”? (Nel caso, per esempio di Paesi come la Libia, che sono stati retti per tanti anni da una dittatura)

L’esportazione di democrazia sta creando nel mondo tanti morti quanti ne ha creati la guerra alle dittature. E’ una espressione inventata negli ultimi vent’anni per giustificare interventi armati là dove ragioni economico –strategiche lo richiedevano. Una invenzione indispensabile soprattutto per dare a governi democratici la possibilità di creare consenso “interno” alle guerre che intendevano fare.

Qual è la situazione a cui avete assistito che l’ha colpita maggiormente oppure l’immagine che le è rimasta più impressa durante il vostro lavoro nel Paese?

E’ un’immagine comune a tante guerre: persone inermi uccise senza una ragione, al solo scopo di terrorizzare chi restava vivo. Uccise sempre con ferocia, accanimento, metodo

Esiste ancora un’etica giornalistica, specialmente quando si ha a che fare con la popolazione che vive una situazione complessa e drammatica?

Si, semplice: raccontare ciò che si vede, sempre, senza sconti o giudizi. E muoversi rispettando chi si ha di fronte.


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