di Salvatore Altiero
La prima edizione, pubblicata nel 2016, è stata citata come prova documentale nella sentenza con cui il Tribunale de L’Aquila, nel febbraio 2018, ha riconosciuto la protezione per motivi ambientali a Milon, cittadino del Bangladesh costretto ad migrare perché ridotto in povertà dal concatenarsi di cause politiche e ambientali, le alluvioni che colpiscono il Paese con gravi danni all’agricoltura.
Un lavoro di ricerca collettivo che non ha tanto a cuore l’imparzialità della scienza quanto il fornire uno studio sulle migrazioni forzate indotte da cause ambientali che attraverso dati, testimonianze e analisi politica sappia fornire “giustificazione scientifica” a una tesi di parte, la “parte Sud” del Pianeta. Così come non basterebbe erigere barriere per scongiurare gli effetti dell’innalzamento del livello dei mari, né esistono tecnologie in grado di neutralizzare gli effetti dei cambiamenti climatici – sembra voler dire il report – allo stesso modo muri e frontiere non potranno fermare la fuga di chi vive in quei luoghi della terra dove l’apocalisse climatica non è una prospettiva futura da studiare ma un presente che esplica già i suoi effetti disastrosi.
Questa la premessa di uno studio che invita il lettore ad allargare il proprio orizzonte sul tema delle migrazioni. Se infatti, in ottica eurocentrica e narcotizzati dalla retorica dell’”invasione”, siamo portati a percepire le migrazioni solo come passaggio di un confine, i dati dicono che le migrazioni interne, quelle di coloro che si spostano ma non abbandonano il proprio Paese, non possono essere ignorate se non a costo di un’analisi parziale della realtà. Nel 2017, ci sono stati 30,6 milioni di sfollati interni, più del numero dei rifugiati internazionali. Ad incidere sulle migrazioni interne sono soprattutto eventi climatici estremi. Le alluvioni hanno costretto a spostarsi 8,6 milioni di persone, i cicloni 7,5 milioni.
Secondo i dati del Global Report on Internal Displacement 2018 dell’Internal Displacement Monitoring Centre, nelle seguenti aree geografiche, il numero di persone in fuga dalle conseguenze di disastri naturali supera quello di chi fugge da guerre e conflitti: Asia orientale e Pacifico (8,6 milioni contro 705.000), Asia meridionale (2,8 milioni contro 634.000), America (4,5 milioni contro 457.000), Europa e Asia centrale (66.000 contro 21.000). Nell’Africa subsahariana abbiamo 5,5 milioni di migranti interni dovuti ai conflitti armati ma comunque 2,6 milioni di persone sono costrette a spostarsi a causa dei disastri naturali.
Ma che le cause ambientali non determino solo migrazioni interne è quanto meno ipotizzabile. In Italia, secondo dati Istat, sono stati concessi 262.770 permessi di soggiorno nel 2017, di cui il 38,5% per motivi di asilo e protezione umanitaria. Se guardiamo ai principali Paesi di cittadinanza delle persone in cerca di asilo e protezione internazionale in Italia, ai primi posti, troviamo Nigeria, Pakistan e Bangladesh. Ovvero Paesi segnati da da cicloni tropicali, inondazioni, piogge torrenziali, frane ma anche dagli impatti ambientali delle attività antropiche, come l’azione delle multinazionali del petrolio nel Delta State, causa di gravi casi di contaminazione.
Su 2,8 milioni di nuovi migranti interni associati ad eventi climatici estremi in Asia meridionale, ad esempio, 900.000 sono bengalesi. Scenari del genere non possono che incidere anche sulle migrazioni internazionali.
In molte aree del Pianeta, il cambiamento climatico e l’impatto ambientale del modello produttivo rendono ancora più gravi situazioni di povertà, violazione dei diritti umani, conflitti armati, cosicché risulta difficile associare la scelta di migrare ad una sola causa. Da questo punto di vista, le migrazioni ambientali sono la conseguenza di un modello di produzione e consumo che infrange pericolosamente i limiti ecologici del Pianeta e quelli di giustizia sociale e intergenerazionale.
Parlare di migrazioni forzate determinate da cause ambientali non significa solo prendere in considerazione quelle determinate dal cambiamento climatico. Cause ambientali di migrazione possono essere considerati i conflitti per la gestione delle risorse naturali, come i minerali preziosi in Repubblica Centro Africana e Repubblica Democratica del Congo o il petrolio in Nigeria e Sud Sudan, così come gli effetti devastanti di grandi opere come le dighe, del landgrabbing e del watergrabbing. Negli ultimi 60 anni il 40% dei conflitti intra-statali (guerre civili come quelle in Angola, Congo, Darfur, Medio Oriente) ha avuto come scintilla proprio l’accaparramento e la gestione di risorse strategiche (dati UNEP, From conflict to peacebuilding. The role of natural resources and the environment).
In questa chiave, assumere il tema delle migrazioni ambientali impone ai Paesi cosiddetti sviluppati un’assunzione di responsabilità sulle conseguenze di un modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e degli esseri umani che crea ricchezza iniquamente distribuita e incide sulla povertà di ampie fasce della popolazione mondiale.
La retorica delle “ondate”, dell’“invasione”, della “sostituzione etnica” adoperata ciclicamente nella descrizione dei flussi migratori diretti verso l’Europa cela una realtà molto diversa e più complessa. A dicembre 2018, i dati UNHCR parlano di 68,5 milioni di persone in tutto il mondo costrette a fuggire dal proprio Paese, un numero mai così alto. Di queste, circa 25,4 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni. Alla stessa data, sommando gli arrivi via mare e via terra, il dato è che, del fragore di questa marea umana, in Europa è arrivata appena una debole eco: 113.539 persone, di cui 22.927 in Italia.
Se andiamo avanti nell’analisi dei dati, la sensazione è sempre più quella di un mondo raccontato alla rovescia: sul totale dei rifugiati al 2017, l’84% è accolto in Paesi in via di sviluppo, il 26% nei Paesi più poveri in assoluto, meno del 10% nell’Unione Europea. Se guardiamo ai dati – afferma il report – vacillano insieme l’idea di un’Europa percepita come principale luogo di approdo dei richiedenti asilo e quella dell’Italia come Paese che sopporta il maggiore carico dell’accoglienza. È vero piuttosto che gli effetti del cambiamento climatico e della crisi ambientale in atto non sono omogeneamente distribuiti dal punto di vista geografico: sono le popolazioni più povere e la cui sopravvivenza è più strettamente legata ai servizi gratuiti della natura quelle che maggiormente subiscono le conseguenze dei danni arrecati all’ecosistema, riproducendo così, nell’ambito della distribuzione dei costi ambientali dello sviluppo, gli stessi rapporti di subalternità connessi alle dinamiche produttive e agli equilibri politici.
È per questo che il report assume la categoria del “capitalocene”, ponendo l’accento sul cambiamento climatico come prodotto storico dei rapporti di produzione e consumo, di potere ed economici che hanno condotto l’umanità fino al baratro dell’autodistruzione. L’assurdo, precisa il report, è che in un Pianeta che rischia di implodere a causa dei cambiamenti climatici la sicurezza sia percepita come funzione di confini che i governi continuano a difendere più dei limiti ecologici del Pianeta, e non si avverta invece l’estrema precarietà a cui l’esistenza stessa dell’umanità viene sottoposta dalla minaccia del climate change.
Un problema che riguarda solo i Paesi in via di sviluppo? Non proprio. Il report, in questa sua seconda edizione, presenta un focus sulle migrazioni ambientali in Italia, proprio per rendere chiaro che i cambiamenti climatici e lo spostamento forzato di popolazione per cause ambientali interessano ormai anche i Nord del mondo. Un dato su tutti: dal 2010 ad oggi, secondo quanto riportato nel dossier di Legambiente Sos acqua: nubifragi, siccità, ondate di calore. Le città alla sfida del clima”, 198 comuni italiani sono stati colpiti da eventi climatici disastrosi con oltre 45.000 sfollati.
Chi si sente sicuro del proprio futuro o interpreta la propria “sicurezza” in funzione di falsi bisogni, dovrebbe allora aprire gli occhi sul fatto che a rendere insicura la sopravvivenza stessa dell’umanità c’è oggi la prospettiva di una nuova era glaciale. In questo scenario, mentre i Nord del mondo siedono sull’orlo del baratro a guardare e consumare, nei Sud del mondo questa nuova era glaciale esplica già i suoi effetti peggiori. La follia sta nel pensare un mondo in cui l’Occidente possa star fermo e continuare a prosperare mentre i poveri della Terra sprofondano senza muovere un passo. Le migrazioni ambientali sono la rivendicazione fatta corpi e vite di un altro modo di produrre e distribuire ricchezza, sono una conseguenza sociale dell’attuale modello di sviluppo il cui respingimento non ha più a che fare con l’incoscienza o l’irresponsabilità ma con un’umanità smarrita. Il “capitalocene” è allora l’era in cui non c’è solo da difendere il diritto degli “altri”, intesi come i più svantaggiati dal punto di vista socio-economico, a migrare, ma quello di tutti a restare; il diritto di vivere in un ambiente sano, di non essere costretti ad abbandonare i luoghi d’origine a causa della compromissione dell’ambiente.