Dossier/ Armi italiane nel mondo

L’Italia non può vendere armi a Paesi “in stato di conflitto armato” o responsabili di “gravi” violazioni dei diritti umani, ma esporta forniture belliche a nazioni coinvolte in guerre e a regimi autoritari.

Nel rapporto ‘Armi italiane nelle polveriere del Mondo’, Greenpeace Italia analizza, con una mappa interattiva e con l’aiuto di Rete Disarmo e Archivio Disarmo, le commesse italiane che vanno a riempire gli arsenali di Paesi fuori dalla Nato e dalla Ue. Il 63% delle licenze 2019 sono state dirette a Paesi extra Alleanza atlantica e Unione europea. L’anno prima questa quota era addirittura il 73%.

Nel 2019 il Governo ha autorizzato esportazioni di sistemi militari per 5,2 miliardi di euro (circa l’1 per cento dell’export italiano) verso 84 Paesi: un dato in leggero calo rispetto al 2018 (-1,4%), ma con valori più che doppi rispetto al passato. Rete Italiana per il Disarmo ha infatti calcolato che negli ultimi cinque anni il Belpaese ha autorizzato esportazioni di armi per un valore quasi pari al totale dei 25 anni precedenti: 44 miliardi di euro contro 53,6.

In questo dossier si riportano alcuni dei tratti salienti del rapporto uscito il 9 luglio 2020.

Il Normandy Index, l'idice che misura la minaccia alla pace

Il Normandy Index (Ni) è il nuovo indice del Parlamento Europeo che misura la minaccia alla pace. L’indice è stato elaborato in collaborazione con l’Institute for Economics and Peace e non considera soltanto fattori tradizionali, come i conflitti armati, il terrorismo, il tasso di omicidi e le armi di distruzione di massa, ma si basa anche su criteri come l’insicurezza energetica, la libertà di stampa, la sicurezza informatica e il cambiamento climatico. Il Ni, così come riportato dal rapporto di Greenpeace, fa riferimento all’Index for Risk Management per l’impatto della variabile “cambiamento climatico”, come il rischio di essere colpiti da calamità naturali legate al riscaldamento globale e la capacità istituzionale di governarle.

Più il valore del Normandy Index è basso (la scala è da 1 a 10), più la minaccia alla pace cresce. I primi due Paesi ad importare armi italiane hanno un punteggio Ni basso, di conseguenza un rischio alto: l’Egitto, il principale acquirente di sistemi militari italici nel 2019, ha un Ni di 5.21, il Turkmenistan, che nel 2019 ha ottenuto autorizzazioni da Roma per 446 milioni di euro, ha il Ni al 5.81. Molti altri, poi, gli acquirenti che hanno un valore di Normandy Index inferiore alla media mondiale (6.37): Arabia Saudita (6.10), Turchia (5.01), Tailandia (5.84), Marocco (6.01), Israele (6.01), India (4.93) e Nigeria (5.38). L’Italia esporta armi anche al Pakistan (4.18), penultimo Paese della graduatoria del Parlamento europeo, appena sopra la Siria (3.57).

Armi e sanità

I Paesi che spendono di più per armarsi che per curare la popolazione sono concentrati nelle zone di maggior tensione, come Vicino Oriente, Nord Africa e Asia meridionale. Il rapporto rileva, tra i casi più eclatanti, l’Arabia Saudita che destina l’8 per cento del Pil alle spese militari e solo il 4 per cento alla sanità pubblica, il Pakistan, che ha un bilancio della Difesa al 4% del Pil e una sanità Cenerentola all’1%, gli Emirati Arabi Uniti (il 5,5% contro un misero 2%) e l’Oman (8,8% contro 3%).

Anche Togo, India, Iraq, Algeria, Ciad, Bangladesh e Marocco investono più nelle attività militari che nella tutela della salute. E a tutti l’Italia vende le sue armi. “Invece di ripristinare – dichiara Chiara Campione, coordinatrice della campagna #Restart di Greenpeace Italia – il vecchio sistema economico fondato su attività inquinanti e distruttive, la ripartenza dopo il Covid19 è un’occasione storica per porre le basi per un mondo più verde, sicuro e di pace”.

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