Le guerre non armate di Trump

a cura di Alice Pistolesi

Guerre non combattute apertamente ma comunque pericolose.

L’obiettivo di questo dossier dell’Atlante è quello di fare il punto su alcuni aspetti della politica estera, diplomatica e soprattutto economica del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che possono creare (o stanno già creando) conflitti.

Per fare alcuni esempi: la guerra economica dei dazi in corso tra Cina e Stati Uniti e tra Stati Uniti ed Europa, lo scontro, per il momento economico e diplomatico, relativo all’accordo sul nucleare iraniano. E ancora l’attuale situazione con il nemico storico Corea del Nord, con il quale, in controtendenza, la situazione sembra essere arrivata ad un faticoso miglioramento.

Quando si parla di economia mondiale non si può non citare il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, arbitro planetario degli scambi commerciali, e coinvolto nella guerra dei dazi da più parti.

A queste guerre non combattute possiamo poi aggiungere anche quella al clima. Un altro tema sentito dalla politica internazionale americana che deve preoccupare il mondo intero e per il quale rimandiamo ad un approfondimento precedente.

A Trump è poi da addebitare la scelta di spostare la sede dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Scelta che più o meno indirettamente va ad esacerbare il conflitto già in essere tra Israele e Palestina.

Contro il nucleare iraniano

Gli Stati Uniti lasciano l’accordo sul nucleare iraniano e annunciano sanzioni del “massimo livello” sia contro Teheran che  contro aziende e banche occidentali che intrattengano affari con il Paese.

I nuovi contratti sono stati messi al bando da subito dall’amministrazione americana, ma imprese e società finanziarie avranno tra i 90 e i 180 giorni di tempo per uscire da quelli in corso.

Le sanzioni intendono colpire l’export di greggio dall’Iran, industria cruciale per la sua economia. Ma sotto attacco ci sono anche i servizi finanziari, l’auto e l’aeronautica.

Washington pare avere le idee chiare. Gli Stati Uniti non vogliono, a detta del segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, “lasciare che l’Iran usi i mercati e il sistema finanziario statunitense e operi in dollari”. Questo almeno finché non avrà accettato le richieste americane ovvero la rinuncia permanente al nucleare la “messa al bando di programmi missilistici e fine della destabilizzazione”.

Ma cosa prevedeva l’accordo iraniano?

Il Piano d’azione congiunto globale (Joint Comprehensive Plan of Action), noto come accordo sul nucleare iraniano,  è un accordo internazionale sull’energia nucleare in Iran.

Il patto, raggiunto a Vienna il 14 luglio 2015, è stato stilato tra l’Iran, il P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, più la Germania), e l’Unione europea.

Con l’accordo l’Iran ha accettato di eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre le sue centrifughe a gas per tredici anni.

Per quindici anni l’Iran potrà arricchire l’uranio solo al 3,67% e ha pattuito di non costruire alcun nuovo reattore nucleare ad acqua pesante.

Le attività di arricchimento dell’uranio saranno limitate a un singolo impianto utilizzando centrifughe di prima generazione per dieci anni. Altri impianti saranno convertiti per evitare il rischio di proliferazione nucleare.

Incaricata di monitorare e verificare il rispetto dell’accordo da parte dell’Iran, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). L’accordo prevedeva  che in cambio del rispetto dei suoi impegni, l’Iran avrebbe ottenuto la cessazione delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a causa del suo programma nucleare.

Con l’uscita degli Stati Uniti il futuro dell’accordo è quantomeno incerto.

Il non-scontro con la Corea del Nord

Il presidente Usa non ha tralasciato nei propri obiettivi di politica estera il nemico storico Corea del Nord.

Dopo anni di scontri più o meno aperti e battaglie più o meno diplomatiche è stata fissata la data dello storico vertice tra i due leader che si terrà a Singapore il 12 giugno 2018.

A rilevare la data lo stesso Trump via Twitter: “Cercheremo entrambi di farne un momento molto speciale per la pace mondiale”, ha scritto.

Singapore è stata scelta da entrambi gli Stati perché soddisfa tutti i requisiti di sicurezza necessari per l’evento. A Singapore, poi, la Corea del Nord ha anche una propria ambasciata. Fatto non usuale visto che le sedi diplomatiche di Pyongyang sono circa dieci in tutto il mondo.

La data dell’incontro arriva dopo l’annuncio del presidente coreano di chiudere del sito di test nucleari a Punggye-ri.

Il fedelissimo di Trump, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo  ha visitato la Corea del Nord nel mese di aprile 2018 e nell’occasione sono stati liberati tre detenuti americani, da mesi prigionieri nei campi di lavoro del regime.

Ma i passi storici per lo stato coreano non riguardano solo gli Stati Uniti. A maggio 2018 si è anche tenuto  l’incontro tra il leader nordcoreano e il suo omologo del Sud, Moon Jae-in.

Al confine tra i loro Paesi, i due leader avevano annunciato il loro impegno a firmare entro il 2018 un trattato di pace che sostituisca l’attuale precario armistizio. Kim Jong-un ha poi annunciato la sua intenzione di arrivare ad una “completa denuclearizzazione della penisola”.

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