Un rifugiato di nome Superman. Conversazione con Carlotta Sami

La portavoce UNHCR per il Sud Europa parla del ruolo della sua agenzia, di un libro per tutti, e di storie di coraggio

di Lucia Frigo con il contributo di Elia Gerola

Anche Superman era un rifugiato”. Si intitola così il libro di UNHCR, edito da Il Battello a Vapore e presentato quest’anno in tutte le regioni italiane.  Carlotta Sami – portavoce UNHCR per il Sud Europa – lo ha raccontato al pubblico di Trento  con il giornalista di Bolzano Alidad Shiri, arrivato dall’Afghanistan in Italia ancora minorenne, e con Lino Guanciale, testimonial UNHCR. Un libro per ragazzi e per adulti, che intreccia storie di 12 rifugiati famosi – da Freddie Mercury a Joseph Conrad, da Nadia Comanenci a Dante Alighieri – con le storie di 12 persone che invece potremmo essere tutti noi.

«Questo libro parla nello specifico di rifugiati che, come tutti noi, sono portatori di competenze, di storie, di un passato, e anche di grande coraggio – ci racconta Carlotta Sami – e si tratta di persone che si trovano a dover affrontare esperienze estremamente traumatizzanti, come può essere la guerra, la persecuzione, in alcuni casi la prigione. Sono storie di persone che, pur passando attraverso ferite psicologiche e fisiche, hanno ritrovato una grande forza vitale che ha consentito loro di fare cose straordinarie, che poi hanno messo a servizio della comunità. Si parla di artisti, musicisti, scienziati, sportivi, scrittori: sono esempi singolari, eccezionali. Ma poi ci sono tantissime altre persone che contribuiscono in maniera diversa, più normale, più quotidiana; L’integrazione è qualcosa che riscontriamo che è realtà: è vero, nella realtà purtroppo ci sono gli attacchi, soprattutto nei social media, dove sono all’ordine del giorno. Ma gli attacchi spesso vengono da persone che appartengono a una minoranza, una minoranza che vorrebbe vivere in un suo mondo a parte. Il nostro lavoro invece è quello di dare voce alla parte di popolazione che include – e che è una maggioranza! – e di darle la possibilità di sentirsi parte di una comunità e di non sentirsi soli, perché non siamo gli unici a volere una società aperta.»

Un’attività di “formazione all’altro”, questa, che si inserisce perfettamente nell’ambito storico delle attività dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite. L’agenzia per i rifugiati ONU, infatti, lavora in più di 130 Paesi del mondo, in una serie di settori che non si limitano alla gestione di emergenze migratorie, ma che guardano anche a soluzioni permanenti e, prima di tutto, alla prevenzione e alla comunicazione. «Noi lavoriamo in questo senso ovunque – spiega la portavoce UNHCR – abbiamo iniziative di questo tipo in tutto il mondo: dal lavoro in piccoli paesi africani in cui abbiamo sviluppato una serie di campagne per coinvolgere le comunità – sono luoghi in cui arrivano migranti a centinaia di migliaia, e sono luoghi molto poveri – fino a realtà del Canada, degli Stati Uniti, ma anche del Pakistan e dell’America Latina. È un lavoro che facciamo ovunque perché il rifugiato si trovi di fronte una comunità ospitante, recettizia.»

Certo, i problemi non mancano. Come non ha mancato di sottolineare qualche settimana fa Felipe Camargo, rappresentante UNHCR per il Sud Europa, a livello intergovernativo gli errori sono stati molti. Paesi geograficamente esposti ai flussi migratori come l’Italia sono stati svantaggiati e di fatto lasciati soli, mentre le convenzioni internazionali – basti pensare alla Convenzione di Dublino, che stabilisce la gestione delle richieste d’asilo nell’Unione Europea – richiederebbero una profonda riforma, scomoda per tutti i governi coinvolti. Sul tema interviene anche Sami: «Il problema è che il tema dei rifugiati è trattato come un piccolo tassello di una strategia politica che è in corso in molti paesi – non solo in Italia – nei quali è in atto una corsa per il potere. Ma noi non possiamo fermarci di fronte al fatto che ci sono delle strategie che utilizzano questo tema in maniera strumentale. Quello delle migrazioni forzate è un problema millenario, troppo radicale e troppo profondo per fermarsi all’oggi. Dobbiamo pensare al domani.»

Carlotta Sami

I numeri infatti sono allarmanti. Sono quasi 70 milioni i migranti forzati nel mondo, di cui 25,5 milioni si qualificano come rifugiati, soprattutto nei paesi confinanti al proprio e tendenzialmente in via di sviluppo. È per questo che – fanno notare gli studiosi – abbiamo bisogno non solo di misure emergenziali nelle situazioni di crisi, ma anche e soprattutto di politiche strutturali. Politiche che pensino al futuro, che tengano conto di fenomeni complessi come il cambiamento climatico, capaci di causare una serie di conseguenze a catena: povertà, carestie, guerre per le risorse, e gli spostamenti forzati di milioni di persone costrette a lasciare la propria casa.

«Occorre lavorare tantissimo, soprattutto per sostenere i paesi che più sono impattati da questo. Dobbiamo ricordarci che non siamo tanto noi, paesi occidentali, a risentirne, ma in primis lo sono quei paesi dove è cruciale il cambiamento climatico, e di conseguenza i grandi spostamenti di massa della popolazione. Si parla quindi dei paesi Asiatici: abbiamo visto cosa succede in Bangladesh, o moltissimi paesi Africani. Ma è il caso anche del Venezuela: recentemente si è superata la soglia del milione e mezzo di rifugiati venezuelani nei paesi limitrofi, che spesso sono anch’essi in via di sviluppo. Per questo è importante lavorare su politiche strutturali, e soprattutto stare attenti a non fare allarmismo. Spesso sento dire che è necessario controllare le frontiere, perché l’Africa sta crescendo in maniera esponenziale in termini demografici. Ma nessuno parla dei dati reali, secondo cui la popolazione africana è una di quelle, a livello mondiale, a emigrare fuori dal continente, e che la stragrande maggioranza degli africani migra all’interno del continente africano. Per questo è necessario conoscere e non creare allarmismi, perché gli allarmismi sono perfetti per non trovare soluzioni.»

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