Brexit: una scacchiera ancora senza vincitori

Si avvicinano giorni cruciali per il governo di Theresa May. Al voto decisioni cariche di conseguenze

La partita a scacchi della Brexit entra nel vivo. Mancano 16 giorni alla data fissata per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, e sul tavolo restano solo una serie di opzioni scartate e dubbi per la prossima mossa. Per la seconda volta, ieri, l’accordo proposto da Theresa May è stato bocciato dal parlamento di Westminster, con 149 voti di differenza. Uno stacco rilevante, anche se non tragico come quello di gennaio: la critica è che la bozza sia ancora troppo simile a quella già rifiutata dal parlamento, che con i due terzi dei voti contrari aveva fatto tremare le gambe al governo. Stavolta invece la May continua imperterrita, anzi difende ancora la sua proposta affermando che sia la migliore opzione possibile.

Gli scenari che si aprono adesso sono complessi. Questa sera alle 20 (ora italiana) i parlamentari voteranno nuovamente, per decidere se uscire dall’Unione Europea senza un accordo: è la cosiddetta “hard Brexit”, temuta da molti e promossa da pochissimi, che strapperebbe il Regno Unito dall’UE con enormi problemi quanto a libertà di movimento, dazi sulle merci e frontiere – in particolare, riguardo a quel tribolato confine con l’Irlanda.

Una mossa anomala è stata quella della May nei confronti del suo partito: i conservatori saranno liberi di votare sì o no all’uscita senza accordo, senza essere vincolati alle direttive del partito. Da un lato, la premier non ha mai auspicato a una rottura secca dei rapporti con Bruxelles, ma dall’altro laddove le previsioni si avverino nessuno potrà ancora cantare vittoria. Se, come annunciano le previsioni, i parlamentari di Londra rifiuteranno l’opzione “no deal”, si tornerà al voto il giorno seguente, per richiedere all’Unione Europea una proroga che permetta a Londra di allontanarsi da quell’angosciosa scadenza del 29 Marzo.

Da qui, il ventaglio delle opzioni: Bruxelles si dimostrerà comprensiva ed estenderà il famoso articolo 50 per concedere più tempo?  E, se questo dovesse accadere, quali sarebbero le nuove opzioni? Molti parlano della possibilità di un ulteriore tentativo di accordo con l’UE, molti altri mettono in dubbio l’uscita stessa dall’Unione. Una possibilità sarebbe quella di un secondo referendum, per rimettere la questione nelle mani dei cittadini inglesi: un’opzione che sembra non piacere al governo May, ma apparentemente molto gradita dalla popolazione, che dopo tre anni di trattative si dichiara sfiduciata e delusa dai suoi rappresentanti in parlamento.

 

Niente è ancora deciso, quindi, e questa settimana si dimostra cruciale per le sorti del Regno di Sua Maestà. Ma mentre i tempi della politica sono fatti di voti rimandati, di nuovi appuntamenti e di negoziazioni, i tempi della finanza non hanno certo da aspettare per vedere cosa farà Westminster.

E infatti sono moltissime le imprese che, con l’ombra di una Brexit senza accordo che incombe sul Paese, hanno deciso di fare i bagagli e trasferirsi. Le mete più gettonate sono Dublino e il Lussemburgo, seguite da Parigi e Francoforte; le più veloci a spostarsi sono state le imprese del settore finanziario e bancario, ma secondo gli studi saranno presto seguite da ogni sorta di business. Un’emorragia che è costata a Londra già più di un miliardo di euro in investitori sfumati, e che ci si aspetta crescerà drasticamente nelle prossime settimane – quando le decisioni dei parlamentari inevitabilmente porteranno più carne al fuoco.

Ma se quest’incertezza danneggia l’economia britannica (e soprattutto quella dell’Irlanda del Nord, grande ostaggio di questa Brexit, il cui futuro è ancora tutto da decidere) anche l’Irlanda inizia a vacillare. La prospettiva di una Hard Brexit sarà particolarmente dannosa soprattutto per l’agricoltura irlandese. L’Associazione Coltivatori Irlandesi ha avvisato il Parlamento inglese della minaccia di una Brexit senza accordo per i settori di agricoltura e allevamento: la metà dell’export irlandese è rivolta al Regno Unito, e se dovessero cessare gli accordi di libero mercato subentrerebbero dazi che si stimano costeranno ai contadini irlandesi intorno 800 milioni di euro. Una responsabilità ulteriore, che i parlamentari inglesi dovranno tenere in considerazione.

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