L’altra faccia della ricchezza

Forme di schiavitù moderna nella sviluppata Olanda in gran parte sulle spalle di chi migra in cerca di fortuna nella fiorente Europa. Un caso studio

di Alessandro Federici

Lo stereotipo vuole che la schiavitù moderna sia un problema solo dei Paesi più lontani. La realtà è che non c’è bisogno di spingersi troppo in là per trovarla. Dal profondo Sud della Spagna, fino alle latitudini nordiche infatti, l’Unione Europea è afflitta dalla piaga dello sfruttamento lavorativo, che da anni, coinvolge diversi Stati membri. Non è un caso allora, se anche nella civilissima Olanda, patria dello stato sociale, si registrano circa 33.000 lavoratori vittime di sfruttamento. Circa 2000 casi di sfruttamento ogni anno.

Secondo uno studio finanziato dall’Open Society Foundation sono quasi 500.000 i migranti arrivati nei Paesi Bassi. Provengono principalmente dall’Europa Orientale e Centrale, e costituiscono la maggior forza lavorativa nei settori più significativi dell’economia olandese: agricolo, e dell’industria della carne. Spinti dalla speranza di migliorare la propria condizione di vita, la propria posizione sociale, in un Paese che consente la mobilità ascendente, molto spesso si scontrano con una realtà del tutto differente fatta di sfruttamento e condizioni di vita disumane, dove la maggior parte dei lavori che svolgono sono caratterizzati da quelle caratteristiche che, Maurizio Ambrosini, esperto sociologo in tema di immigrazioni, chiama le cinque “p”: precari, pericolosi, pesanti, poco pagati e penalizzati socialmente.

Barka, organizzazione che sostiene e assiste persone dell’Europa Centrale e Orientale che si trovano in una situazione di forte disagio, spiega, come la maggioranza delle persone vengano assunte tramite agenzie interinali nei Paesi di provenienza dei migranti. Quest’ultime possono essere uffici locali di agenzie olandesi, situate su quel determinato territorio, o agenzie di quei Paesi d’origine che collaborano con le compagnie di reclutamento olandesi. Negli ultimi anni sono aumentante, e secondo quanto riportato da un report governativo, molte abusano della posizione fragile dei migranti imponendo loro condizioni, che di fatto, annullano qualsiasi tipo di tutela.

Il sistema olandese, sia dal punto di vista legislativo, che dei controlli, sembra in crisi, e a farne le spese sono proprio i migranti. Il contratto collettivo di lavoro per i lavoratori temporanei riconosce tre tipi di contratti, ognuno di esso situato in tre diverse fasi, spiega Anna Ensing di Fairwork, associazione che sostiene le vittime dello sfruttamento del lavoro nei Paesi Bassi. Nella fase A troviamo il contratto con clausola di lavoro temporaneo. Quest’ultimo può terminare immediatamente e in qualsiasi momento, e i lavoratori sono pagati solo per le ore che lavorano (contratto a zero ore). Questo stadio implica un rischio costante di licenziamento e un’elevata insicurezza nel reddito. Nella fase B, subentra un contratto per un periodo fisso, solitamente per un massimo tre anni. All’interno di questa fase i lavoratori trovano più tutele e sicurezze, percependo, a differenza di quanto avviene nella fase A, un’entrata mensile fissa. Nella fase C, viene stipulato un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ancora una volta, Anna Ensing di Fairwork, chiarisce come questa strutturazione è problematica per i lavorati, in quanto i datori di lavoro e le agenzie interinali evitano che i lavoratori progrediscano oltre la prima fase del contratto. Come riporta lo studio di Open Society European Policy Institute, questo è vantaggioso sia per le agenzie che per i datori di lavoro. I primi, stipulando sempre più contratti, e quindi reclutando un numero sempre maggiore di lavoratori, ricevono compensi più alti. I secondi, invece, risparmiando sui salari e le prestazioni accessorie. È importante specificare, in base a quanto dichiarato da Piotr Jackiewicz di Pauluskerk Rotterdam, che il 10% dei lavoratori migranti in arrivo in Olanda, non sono a conoscenza dei propri diritti, in quanto i contratti stipulati non sono redatti nella lingua di provenienza di queste persone, né in lingua inglese.

I lavoratori al fine di ottenere, ma soprattutto di mantenere il proprio lavoro, devono sottostare a pessime condizioni lavorative. Il Stichting Loods, associazione che si prende cura di persone in situazioni vulnerabili, la quale nei suoi vari anni di attività ha accolto persone soggette a sfruttamento lavorativo, ne elenca alcune. Si parla di estenuanti turni di lavoro; dalle 12 alle 14 ore, di salari bassi, ben al di sotto del salario minimo garantito nei Paesi Bassi, e di abusi. Un’altra problematica è quella che riguarda la casa. In base alle condizioni contrattuali, i datori di lavoro o le agenzie, mettono a disposizione per i lavoratori un alloggio.

Molto spesso questi alloggi sono delle e vere baraccopoli, dove i migranti vivono in condizioni spaventose e disumane. Inoltre, gli affitti sono molto elevati, si parla di 150-200 euro alla settimana. Un’altra criticità è data dal fatto che, una volta perso il lavoro, c’è l’obbligo di lasciare l’alloggio entro 24 ore. Nel peggiore dei casi, immediatamente. Questo comporta inevitabilmente che molti di loro finiscono a vivere in strada, non avendo nessun altro posto dove andare. “Si sta cercando di porre rimedio a questa situazione con nuovi accordi contrattuali, che consentirebbero alle persone di lasciare la propria abitazione entro due settimane dalla perdita del lavoro, ma non è ancora abbastanza”; dice Anna Ensing di Fairwork.

Si potrebbe sempre dire basta, ma non è così semplice. Non sempre i lavoratori sfruttati se ne vanno. Trasporto, assicurazione sanitaria e alloggio sono spesso legate al contratto di lavoro. Tutte condizioni che determinano una forte dipendenza verso i propri datori di lavori, e quindi la rinuncia a denunciare i casi di sfruttamento per paura di perdere anche quel poco di cui dispongono. Anche nel caso in cui le vittime cerchino giustizia, ottenerla è raro. Infatti, secondo Investico, piattaforma olandese di giornalismo d’inchiesta, riporta come solo una denuncia su cinquanta porta ad una condanna. L’inchiesta mette in luce come il confine tra sfruttamento e cattiva condotta del datore di lavoro, è spesso troppo vago, perché le autorità possano intervenire. In tutto questo, un ruolo molto importante è giocato anche dal contesto sociale dei Paesi di origine dei lavoratori migranti. La maggior parte di essi proviene dalle economie più fragili e povere dell’UE. Una volta giunti nei Paesi di destinazione, nonostante la realtà non realizzi le loro aspettative, a causa delle varie violazioni che subiscono, essi si sentono più arricchiti, e paradossalmente, più soddisfatti delle “nuove” condizioni di vita. Questo dato è allarmante, in quanto essi, anche a causa della mancanza di strumenti sociali e culturali, non si accorgono, non si rendono conto degli sfruttamenti e delle innumerevoli violazioni a cui ogni giorno sono soggetti.

Come riportato dalle varie organizzazioni e attivisti che lavorano su questo tema, ad oggi, il Governo olandese, oltre a svariate promesse e all’istituzione di una task force a tutela dei lavoratori migranti durante l’epidemia da Covid-19, non ha fatto nulla di concreto per porre rimedio a questa problematica. Inoltre, i controlli sono praticamente inesistenti. Soltanto l’1% delle aziende viene controllato annualmente dall’ispettorato del lavoro.

Nel grafico: posti di lavoro dei lavoratori stranieri per Paese d’origine. 20171

 

Questo articolo è parte di una collaborazione didattico-giornalistica tra Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo e l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Gli autori sono giovani tra i 18 e i 28 anni che stanno svolgendo servizio civile all’estero 

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