La distanza del Mondo dalla “questione palestinese”

Un dramma che non si risolve mentre le cancellerie sono occupate con il riassetto di un quadro geopolitico complicato dalla guerra ucraina. L'analisi di Eric Salerno

di Eric Salerno

E’ sufficiente seguire l’andamento dei social network, di Facebook, Twitter e anche della maggioranza dei quotidiani più rispettabili e attenti in giro per il Mondo per capire che la “questione palestinese” interessa sempre di meno al grande pubblico e ancora meno nelle cancellerie. Persino i media israeliani appaiono quasi sorpresi nel dover raccontare e spiegare per l’ennesima volta attentati, morti, repressione come gli eventi tragici delle ultime settimane a Tel Aviv e dintorni, a Bersheva nel Sud del paese e, ovviamente, nei territori occupati della Cisgiordania. Gerusalemme, come tante volte da quando fu conquistata e occupata dalle truppe israeliane nel 1967, è il luogo che rappresenta, non sempre in modo chiaro e giusto, il comportamento del governo israeliano e dei coloni o la vita, i sogni, le rivendicazioni degli arabi palestinesi.

“Israele – scrive su Haaretz un noto giornalista – nega loro i diritti democratici fondamentali, demolisce le loro case e limita i loro movimenti. La polizia tratta tutti i palestinesi come un nemico e altre agenzie li discriminano in ogni campo: salute, istruzione, trasporti, infrastrutture. Quindi posso dire che l’occupazione a Gerusalemme è già abbastanza grave e non c’è bisogno di inventare bugie al riguardo”. Al collega del quotidiano (considerato la voce storica di chi tra gli ebrei d’Israele cerca una soluzione pacifica del conflitto) fa eco e aggiunge una spiegazione uno dei più noti e caustici editorialisti.

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“Gli eventi che si sono svolti nelle ultime settimane nei territori occupati sembrano essere stati tolti dalla Bibbia. Tutto è immerso nella religione e nel fondamentalismo: il Monte del Tempio, la Tomba di Giuseppe, la yeshiva a Homesh, i pellegrini, i fedeli, il Ramadan, l’agnello sacrificale, il Tempio. Una guerra di religione tratta direttamente dai racconti biblici”, scrive Gideon Levy. E aggiunge: “Nonostante questo, non commettere errori, la religione è solome un oggetto di scena teatrale. Il motivo che guida i coloni e i loro sostenitori rimane ultra-nazionalista… Le aspirazioni palestinesi sono sempre state e rimangono nazionali: diritti, indipendenza, rimozione dell’occupante. Questo è ciò che sta alla base dei violenti disordini espressi dai giovani palestinesi sfrenati. La religione è usata da entrambe le parti solo come scusa. Nonostante tutti gli ornamenti, questa non è una guerra di religione, anche se potrebbe diventarlo”.

Nelle ultime settimane in cui ebrei, cristiani e musulmani hanno visto le loro feste religiose coincidere e il moltiplicarsi di attentati e repressione, si è potuto assistere a un modesto balletto da parte di alcune potenze esterne al conflitto ma interessate, per motivi diversi, ad evitare un’esplosione nel momento in cui il mondo è già diviso in schieramenti spesso incerti, quasi perplessi, riguardo la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. L’amministrazione Usa si è subito mossa spedendo un inviato nella regione formalmente “per parlare del processo di pace” ma nella pratica soltanto per chiedere ai suoi alleati e agli stessi palestinesi di non agitare le acque. La casa reale Giordania, debole e in difficoltà per questioni interne (compresi problemi economici), ha criticato più volte e duramente Israele mentre il parlamento di Amman chiede di sospendere il trattato di pace tra i due paesi.

L’Arabia Saudita è rimasta fuori dal dibattito dopo essersi avvicinata provocatoriamente alla Cina, in funzione anti Biden, dopo aver respinto la richiesta del presidente Usa di aiutare a ridurre il prezzo del petrolio balzato in alto per la guerra in Europa. La Turchia, membro Nato che sta attraversando una grave crisi economica, ha stigmatizzato le violenze israeliane in Palestina garantendo, però, che non incideranno sui ritrovati rapporti amichevoli con il Governo Bennett anche esso in difficoltà. Come sempre l’atteggiamento delle due realtà palestinesi sono state contrapposte e contraddittorie. Da una parte il presidente dell’Anp, che continua a perdere consensi interni, ha minacciato di rompere le relazioni con Israele. E Hamas, sempre ambiguo, ha fatto sapere a Tel Aviv che non vuole un’escalation del conflitto ma non può abbandonare quella crescente fetta della popolazione palestinese alla ricerca una leadership più dinamica.

E’ un quadro desolante. E pieno di rischi. Non è chiaro se Usa e Europa raggiungeranno un nuovo accordo con l’Iran sul nucleare. Israele appare incerta se lanciare o meno un attacco preventivo contro Teheran che potrebbe scatenare una guerra regionale devastante. E gli altri attori, grandi e piccoli, appaiono fermi nell’attesa di capire se le “grandi potenze”, termine sempre meno definibili, si stanno preparando a disegnare un nuovo assetto regionale come fecero gli europei dopo la fine dell’impero ottomano e che modificarono e consolidarono con gli Usa alla famosa conferenza di Yalta alla fine della seconda guerra mondiale. Di certo, la condizione del popolo palestinese non sembra destinata a migliorare fino a quando la maggioranza degli israeliani, laici e fanatici religiosi, resta nettamente schierata e attiva contro la creazione di uno stato arabo nei territori occupati.

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