La scommessa bitcoin di Bukele

Il presidente del Salvador che un anno fa ha introdotto la moneta virtuale si ricandida. In barba alla Costituzione e al fallimento del progetto monetario

di Gianni Beretta

Nonostante la Costituzione salvadoregna (concordata trent’anni fa dopo gli accordi di pace che misero fine alla guerra civile) disponga fermamente la non rieleggibilità, il giovane presidente Nayib Bukele (nell’immagine sotto)  ha annunciato che nel 2024 si ricandiderà alla guida del Paese. Non che si tratti di una sorpresa, visto che il primo Capo di stato millennial dell’America Latina può contare su oltre i due terzi dei deputati del Parlamento, controllando pure il potere giudiziario che ha successivamente riformato con una Corte suprema di giustizia compiacente.

E dire che la sua azzardata messa in “circolazione” del bitcoin (primo al Mondo, esattamente un anno fa) si è rivelata un solenne fallimento, dopo che è precipitato dal suo massimo di 69mila dollari fin sotto i 20mila. Così che lo Stato salvadoregno è in perdita per oltre 60 milioni di dollari dei 105 in denaro pubblico investiti per comprare 2.301 bitcoins. Non solo: altri 150 milioni sono stati collocati in un relativo deposito di garanzia; mentre ulteriori 120 milioni sono serviti per allestire la piattaforma digitale Wallet Chivo, cui avevano aderito da subito i due terzi dei 6,5 milioni di abitanti; ma solo per usufruire dei 30 dollari d’incentivo iniziale.

Oggi a malapena un 10% del totale dei pagamenti viene effettuato in bitcoin nel mezzo di una grande povertà e con l’economia informale che sfiora il 70%. E meno del 2% delle rimesse familiari inviate dai quasi tre milioni di emigrati salvadoregni sono state trasferite in patria in valuta virtuale. Men che meno è decollata la faraonica costruzione sulla costa del Pacifico di Bitcoin City, dove sarebbe stata allestita una base di “estrazione” della criptomoneta alimentata dall’energia geotermica del vulcano Conchagua. E posposta sine die l’emissione sul mercato di Bitcoin Bond per un miliardo di dollari per il suo finanziamento. Col Fondo Monetario Internazionale a minacciare El Salvador di sospendere nuovi crediti nel caso persista nell’impiego della moneta digitale.

A complicare ulteriormente le cose si era registrato alla fine del marzo scorso il più violento week end nella Storia del Paese in tempo di pace con 87 omicidi ad opera delle maras, le bande giovanili che imperversano da oltre un paio di decenni controllando ampli territori mediante estorsioni e spaccio di stupefacenti. Bukele reagì subito decretando lo stato di eccezione, tuttora vigente, con la sospensione di una serie di garanzie costituzionali.
Nate a Los Angeles, le pandillas sono state trapiantate nell’istmo dai figli degli emigranti deportati a fine pena dalle carceri della California. E si sono rapidamente diffuse (anche in Guatemala e Honduras) per le condizioni di estrema miseria e all’indomani di devastanti conflitti che avevano lasciato grandi quantità di armi da fuoco in circolazione.
I governi che si sono succeduti in El Salvador, di destra come di sinistra, hanno alternato invano periodi di feroce repressione a tregue temporanee, durante le quali i pandilleros sono lievitati intorno ai 70mila.

Con l’insediamento di Bukele l’indice dei morti ammazzati per centomila abitanti era drasticamente diminuito. Salvo scoprire, grazie alla invisa giovane equipe di giornalisti indipendenti de El Faro, che quel risultato non era il frutto di un improvviso miglioramento delle condizioni di vita della gioventù salvadoregna, bensì di un fitto andirivieni fra le zone sotto il controllo delle maras e le carceri dove erano detenuti i loro capi. Con le autorità di governo ad attenuare la repressione (oltre che le loro condizioni di detenzione) in cambio di una minore belligeranza.

Poi qualche arresto di troppo ha fatto saltare quell’illusorio equilibrio. E le pandillas hanno reagito con una repentina impennata di omicidi. Cui Bukele ha risposto con l’arresto di oltre 60mila giovani, il tasso di detenuti più alto del subcontinente (tanto da avviare l’urgente costruzione di nuovi penitenziari). Fra essi 1.100 minorenni (compresi i dodicenni condannabili fino a dieci anni). Basta avere un tatuaggio o una spiata di un vicino per finire dietro le sbarre: ammassati 24 ore su 24 nelle celle senza poter vedere, ha disposto via social Bukele, “un solo raggio di sole”. Unanime è giunta la condanna fra gli altri della Commissione Interamericana per i Diritti Umani.

Così che, nonostante la debacle del bitcoin, scorciatoia per “salvare” le finanze del Salvador, il sempre più autarchico Najib Bukele, strettamente legato a esercito e polizia, mantiene elevati consensi per la mano dura adottata contro le maras, di cui la popolazione più sventurata è stata finora impunemente in balia. Lungi dal tentare di attenuare le disuguaglianze alla base della miseria di questo paese, dove l’oligarchia le tasse non sa neanche cosa siano. Senza contare l’incredibile imprimatur ricevuto dall’arcivescovo metropolitano mons. Luis Escobar Alas, che pure aveva più volte criticato l’atteggiamento autoritario del presidente. In una recente omelia ha affermato che “le Scritture proibiscono di adorare il vitello d’oro; ma se il popolo lo vuole che lo faccia”, riferendosi al grande appoggio popolare manifestato alla ri-postulazione del neo-populista Bukele.

In copertina una periferica hardware wallet che elabora pagamenti bitcoin senza esporre alcuna credenziale al computer. Nel testo l’immagine che campeggia sulla pagina FB del Presidente

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