Piccolo Atlante di una Pandemia (settembre 2021)

Una panoramica globale sull’evoluzione del virus e soprattutto della risposta di Paesi, Governi, Continenti, Persone

Come sarà il Mondo dopo questa pandemia? La domanda ce la siamo posta continuamente, in lungo tempo di confronto con il virus. Resta comunque attuale, necessaria. La risposta, però, appare complessa, difficile, più simile ad una divinazione, che ad una tesi scientifica.

Venti mesi dopo l’avvio di questo dramma globale chiamato Coronavirus, qualche elemento per capire, a dire il vero, lo abbiamo. Ci sono segnali, indicazioni, comportamenti che ci raccontano di un Pianeta alle prese con problemi enormi, ma indirizzato in modo diverso da prima. Quello che possiamo intuire, è che difficilmente le cose torneranno a come le conoscevamo sino al 2019.

Come sempre facciamo qui, sull’Atlante, partiamo dai dati: al 30 settembre 2021 i casi mondiali accertati erano 233.136.147. I morti erano 4.771.408 e le dosi di vaccino complessivamente somministrate più di 6miliardi.

Cifre spaventose, che alla crisi sanitaria evidente affiancano una crisi economica e di sistema che, in molti casi, è lacerante. Facciamo un esempio: il lavoro. Nel 2020, secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro – un’agenzia delle Nazioni Unite -, si sono perse 12miliardi di ore, pari a 250milioni di posti di lavoro a tempo pieno andati in fumo. Un disastro che pesa e peserà sulle economie, fermando i mercati interni. Della situazione molti Governi si sono resi conto e qui tracciamo la prima linea di cambiamento in atto. A livello planetario, il ruolo degli Stati nell’economia è tornato fondamentale. Chiusi i ruggenti anni della marginalità statale e della deregulation selvaggia, Il “pubblico”, cioè lo Stato, è tornato protagonista. “Stiamo assistendo ad una rivoluzione che non sappiamo dove ci porterà”. A scriverlo è stato The Economist.

Di fronte alla crisi, i Governi hanno stimolato l’economia con interventi diretti, le banche centrali sono state protagoniste con programmi di sostegno e il debito pubblico è schizzato in avanti, senza però che alcuno alzasse la voce scandalizzato. Negli Stati Uniti, il presidente Biden ha promosso un’operazione da 1.900miliardi di dollari per rilanciare l’economia. “Serve – ha detto – un’economia che va dal basso verso l’alto e dal centro verso l’esterno e non dall’alto verso il basso”. Una buona idea, che si è tradotta in una vera rivoluzione: ha abbassato le tasse ai più poveri e non ai ricchi, rovesciando le convinzioni di un trentennio, passato a teorizzare che favorire i più abbienti riducendogli le imposte fosse utile anche per la classe media.

La rivoluzione che non c’è, invece, è quella necessaria per portarci fuori dalla crisi climatica. Il lockdown del 2020 ha aiutato: le emissioni globali di anidride carbonica sono diminuite di 2,3 miliardi di tonnellate, il 6,4% in meno rispetto al 2019. Il calo è figlio del traffico aereo bloccato, delle industrie paralizzate, delle strade deserte. In realtà, gli esperti si attendevano un risultato migliore. Volessimo oggi evitare che, a livello globale, vengano superate di 1,5 gradi le temperature rispetto all’epoca pre-industriale, dovremmo quest’anno ridurre le emissioni di carbonio del 7,6%. Insomma, siamo lontani. Per di più, la ripresa di una vita normale post pandemia fa temere un rimbalzo verso l’alto delle emissioni, dovuto alla frenesia delle attività economiche e alla voglia di spostamenti delle persone. La certezza – lo dicono gli esperti – è che il cambiamento climatico in atto, in termini di pericolosità e di mortalità, entro trent’anni sarà ben peggio del Coronavirus.

I costi sociali saranno altissimi. Il tutto in un Mondo che ha dimostrato – terza riflessione – di essere inadeguato dal punto di vista della spesa sanitaria. L’Analisi è di Oxfam e Development Finance International (Dfi). Hanno lavorato sulle politiche di 158 Paesi relativamente ai servizi pubblici, al fisco e ai diritti dei lavoratori. Si tratta di tre aree strategiche, considerate fondamentali per ridurre la disuguaglianza e superare l’emergenza Coronavirus. Bene, dal lavoro risulta che prima della pandemia, solo 26 Paesi destinavano circa il 15% della loro spesa pubblica totale alla sanità. In 103 Paesi, poi, un lavoratore su tre non aveva tutele o diritti essenziali, come l’indennità di malattia.

“Al netto della retorica – ha dichiarato Chema Vera, direttore esecutivo di Oxfam International – pochi governi al Mondo negli ultimi anni si sono veramente impegnati a contrastare le disuguaglianze economiche e sociali e a tutelare adeguatamente le persone più vulnerabili. La pandemia ha peggiorato una situazione già gravemente compromessa. Milioni di persone sono finite in povertà, si è aggravata la piaga della fame e centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita.”

Giusto per intenderci, forse anche per capire meglio le scelte attuali di Biden, in questo campo, gli Stati Uniti sono il fanalino di coda dei Paesi del G7. In materia di legislazione sul lavoro, hanno una situazione peggiore di Paesi poverissimi come Sierra Leone e Liberia. Questo a causa delle politiche anti-sindacali e di livelli eccezionalmente bassi del salario minimo legale. La foto che esce dall’analisi di Oxfam e Dfi, è quella di un Paese con un sistema sanitario che esclude milioni di persone povere, soprattutto le comunità nere e latino-americane. Solo 1 famiglia afroamericana su 10 può permettersi un’assicurazione sanitaria, contro le 7 famiglie su 10 nella comunità bianca. Altri Paesi in queste condizioni – cioè con scadenti politiche di contrasto alle ingiustizie – sono Nigeria, Bahrain e India. La spesa sanitaria dell’India è, in termini percentuali rispetto alla spesa pubblica complessiva, la quarta più bassa al Mondo. Solo metà della popolazione ha accesso ai servizi sanitari essenziali. In più, in diversi Stati della federazione, le condizioni di lavoro sono peggiorate. Le ore lavorative sono state aumentate da 8 a 12 al giorno ed è stata sospesa la legge sul salario minimo.

Il risultato è che i poveri sono sempre più poveri. La pandemia ha allargato la forbice e le differenze, affossando spesso anche i diritti. Molte democrazie, in Europa e Asia, sono diventate una semplice facciata, priva di sostanza e con migliaia di dissidenti incarcerati o eliminati.

La pandemia, invece, sembra non avere avuto alcuna conseguenza sul mercato delle armi, che rimane vivace e capace di generare fatturati ultramiliardari. In questo, ad aiutare – siamo al quarto filone di riflessione – c’è il riposizionamento generale a cui stiamo assistendo, in termini di geopolitica. Gli Stati Uniti sembrano aver scelto il ritorno alla vecchia politica “dell’impero del mare”, riposizionando la flotta e stringendo una nuova alleanza – Aukus – con Regno Unito e Australia.  Tutto è avvenuto, almeno ufficialmente, nel settembre del 2021, dopo la fuga dall’Afghanistan e l’abbandono – mai dichiarato, ma nei fatti – dell’impegno militare terrestre da parte di Washington. Troppo costoso mantenere un esercito. Così, per contenere la Cina, protagonista nel Mondo anche grazie alla politica dei vaccini, dichiarati da Pechino “bene pubblico mondiale”, gli Usa puntano sugli alleati anglofoni del Pacifico e sulla flotta. Una scelta che ha creato malumore nei vecchi alleati europei della Nato, che si stanno organizzando per creare la prima forza militare di pronto intervento – 6mila uomini – della storia della Ue. Intanto, nel Mediterraneo lo scontro fra Francia e Turchia per il controllo sta diventando sempre più evidente. Parigi ha concluso un accordo militare con Atene, storica nemica della Turchia: fornirà navi e addestramento.

Prove muscolari, eserciti riposizionati, povertà che cresce, diritti che vengono ignorati, ruolo degli Stati che cambia e torna fondamentale. Il Coronavirus sta cambiando il nostro tempo. E’ un cambio veloce, profondo, radicale. La cosa positiva è che lo sappiamo, ce ne rendiamo conto e possiamo fare scelte, prendere contromisure. A pensarci bene, non è poco.

Un lavoro di: Daniele Bellesi, Raffaele Crocco, Alessandro De Pascale, Teresa Di Mauro, Lucia Frigo, Elia Gerola, Emanuele Giordana, Alice Pistolesi, Maurizio Sacchi, Luciano Scalettari, Beatrice Taddei Saltini

Crisi economiche diffuse, proteste popolari, conflitti mai sopiti, fughe in massa, ma anche leggere riprese. Queste le parole che caratterizzano i diciotto mesi di pandemia da Covid-19 nel Vicino Oriente. Un’area interessata da varie situazioni di guerra, da interessi immensi e sempre pronta a esplodere.

Yemen, guerra senza sosta

La guerra in Yemen non si è mai fermata e le parti in conflitto hanno a più riprese approfittato della pandemia per avanzare. Mentre i combattimenti proseguivano senza sosta, nell’estate 2021, si è svolta un’intensa attività negoziale per cercare di trovare una soluzione alla crisi. Attività che non ha impedito a molti di fuggire: l’Unchr ha avvertito in agosto che i bisogni umanitari tra le comunità sfollate erano in rapido aumento. Dall’inizio del 2021 quasi 24mila persone sono state costrette alla fuga per gli scontri armati nel governatorato di Marib, che accoglie già un quarto dei quattro milioni di sfollati interni.  Minima la popolazione vaccinata. Al 24 settembre 2021 solo lo 0,1% della popolazione aveva ricevuto la doppia dose.

Siria, crisi galoppante e conflitto

Dieci anni di guerra significano, tra le altre cose, servizi sanitari quasi inesistenti. Nel settembre 2021 una ondata di contagi ha messo in ginocchio Idlib, l’area che ospita circa tre milioni di persone, metà delle quali vi si sono state trasferite in massa per fuggire dalle altre zone interessate dai combattimenti. Le strutture adibite all’emergenza sono state realizzate grazie al sostegno di Ong e dall’Organizzazione mondiale della sanità, ma non sono sufficienti.  Al conflitto si somma la questione economica. L’80% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, il valore della lira siriana è crollato di circa il 200% e i prezzi dei generi alimentari stanno aumentando a dismisura. A fronte di questo  l’Onu e i suoi partner hanno ricevuto solo il 27% dei finanziamenti necessari per il piano di risposta umanitaria del 2021 per la Siria, che prevede 4.2 miliardi di dollari. Secondo gli ultimi dati della Johns Hopkins Univeristy and medicine solo lo 0,93% della popolazione avrebbe completato il ciclo di vaccinazione.

Turchia, diritti in picchiata

La Turchia è uno di quei Paesi del Mondo in cui, secondo il Rapporto di Amnesty International, è stata ripetutamente violata la libertà di stampa nel 2020 e 2021 e in cui la pandemia è stata utilizzata come scusa per dare il colpo di grazia ai diritti. Nel luglio 2020 il Parlamento turco ha approvato una legge che conferisce alle autorità un potere maggiore per regolare i social media. In forza di questa legge il governo turco ha multato Twitter, Facebook, YouTube, Instagram e TikTok con 5,1milioni di dollari. Alla fine del 2020, inoltre il Paese ha deciso di ritirarsi dalla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.

Nei primi mesi di pandemia Ankara aveva sfruttato l’emergenza per rinsaldare i rapporti politici con le aree di interesse, svelando le proprie ambizioni a livello internazionale. L’attivismo del Paese è proseguito poi nei conflitti in Libia, in Siria ai danni della popolazione curda e nel Kurdistan iracheno. Meglio sul fronte vaccinale: al 24 settembre 2021 la metà della popolazione risulta vaccinata con doppia dose.

Libano, crisi senza fine

La crisi sociale ed economica la fa da padrona in Libano. Il nuovo Governo del premier Najib Mikati, insediatosi dopo uno stallo durato 13 mesi ha una valanga di sfide da sostenere. La gestione della pandemia è tra queste. Nel luglio 2021 il Paese si è trovato a fare i conti con una nuova ondata di contagi mentre la carenza di medicinali si era fatta strutturale.

Nel collasso economico è arrivata anche la crisi del carburante. Da mesi ormai le aziende elettriche non riescono e a soddisfare il fabbisogno nazionale e i blackout sono giornalieri. Il sistema bancario è fallito: il debito pubblico sfiora il 180% del Pil, mentre il tasso di disoccupazione è salito al 40%. Secondo l’Onu 7 libanesi su 10 vivono in povertà e questa situazione si riflette anche sugli oltre un milione e mezzo di profughi palestinesi e siriani presenti da anni nel Paese. Sul fronte vaccinale la percentuale di popolazione vaccinata è al 18.6%.

Paesi del Golfo, una lenta ripresa

In ripresa le economie di Giordania e Arabia Saudita. Amman ha registrato una crescita del 2% grazie al ritorno graduale del turismo. Il 31,4% della popolazione risulta vaccinato con doppia dose. Riprendono gli eventi internazionali a Dubai, dove dal 1 ottobre al 31 marzo 2022 si svolgerà Expo2020.  L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha previsto una crescita di oltre il 2% nel 2021, per le tre “maggiori economie arabe”, ovvero Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Sul fronte vaccinale i Paesi del Golfo vanno dall’81,5% della popolazione degli Emirati Arabi, al 75,5% di Qatar, al  63,5% di Bahrein, fino al 51,5% di Arabia Saudita e al 35% dell’Oman.

Iraq: emergenza idrica e tensioni sociali

In Iraq la crisi sanitaria dovuta al Covid19 si è andata a unire alla grave situazione economica, causata dalla carenza di liquidità e dal crollo del mercato del greggio, e alle proteste popolari represse nel sangue dalle forze di sicurezza. Fin dall’inizio della pandemia le strutture ospedaliere irachene avevano denunciato la carenza di medicinali, letti e medici qualificati. Al 24 settembre solo il 6% della popolazione è stata vaccinata. Il Paese sta affrontando una delle peggiori crisi dal 2003 e la mancanza di acqua potabile (causata  dai cambiamenti climatici) si fa sempre più evidente. I dati raccolti dal Wfp a maggio 2021 mostrano che l’8% degli abitanti delle province di Ninive e Kirkuk non assume quantità di cibo sufficienti.  La carenza idrica alimenta nuove tensioni sociali, mentre il Paese è alle prese con le ennesime elezioni governative.

Israele e Palestina sempre più ai ferri corti

La pandemia ha a più riprese contribuito ad esacerbare gli animi in Israele e Palestina.  Gli undici giorni di raid su Gaza nel maggio 2021 hanno peggiorato una situazione già al limite nell’enclave e hanno danneggiato sei ospedali e undici centri di assistenza sanitaria di base, oltre all’unica clinica per i test Covid. Le proteste contro la politica di occupazione israeliana, gli sfratti e anche in opposizione all’immobilismo dell’Anp, continuano senza sosta sia nella Striscia sia in Cisgiordania. In Israele ha ricevuto il vaccino il 63,8% della popolazione e all’inizio di agosto 2021 è iniziata la somministrazione della terza dose. Siamo invece fermi al 12,5% in Palestina. Il premier israeliano Naftali Bennett  ha dichiarato ad agosto di aver stanziato 2,5miliardi di shekel (660milioni di euro) a sostegno del sistema sanitario.

Il caso Iran

Fuori dalla Cina, l’Iran è stato il primo a destare (fin da gennaio 2020) serie preoccupazioni. Anche a settembre 2021 gli ospedali sono sotto pressione per la quarta ondata, i casi reali maggiori rispetto a quelli denunciati dalle autorità (dati ufficiali al 23 settembre 2021: 5.493.591 casi e 118.508 vittime). Per la leadership iraniana le sanzioni Usa impedirebbero l’arrivo di rifornimenti medici, motivo cui va aggiunta la già pregressa crisi economica, aggravata dalla pandemia. I vaccini arrivano dalle nazioni con le quali l’Iran ha rapporti: Cina (Sinovac), Russia (Sputnik V) e India (Covaxin), più gli AstraZeneca del programma Onu Covax. Per il mondo scientifico, la Repubblica islamica sarebbe però tra le poche nazioni della regione a poterli sviluppare in proprio, entrando così nella diplomazia regionale dei vaccini: due quelli già realizzati, il COVIran Barekat (a Teheran) e il Pasteurcovac (prodotto in collaborazione con Cuba). Altri 10 sarebbero in fase di sviluppo. Al 19 settembre 2021, su 85milioni di abitanti 13,6milioni avevano completato il ciclo vaccinale.

Afghanistan, Covid e Talebani

Il 15 agosto 2021, entrando nella capitale Kabul, i Talebani hanno instaurato il loro secondo emirato islamico nel Paese. La paralisi della già inadeguata e corrotta macchina istituzionale, sommata allo stop del flusso di cassa che arrivava dall’Occidente, sono arrivate in una fase aggravata anche dalla pandemia. “La terza ondata” Covid19 è “fuori controllo”, disse in Parlamento il 14 giugno 2021 l’allora ministro ad interim della Salute, Wahid Majroh. Tre giorni dopo, si registrava anche la quasi chiusura per Coronavirus persino dell’ambasciata Usa: 114 casi, un avvenuto decesso e diverse evacuazioni sanitarie. C’è poi il problema vaccini: 500.000 dosi dall’India (Covaxin) a febbraio 2021, altre 468.000 del programma Onu Covax. Poi più nulla per tre mesi: le somministrazioni riprendono solo il 10 giugno con 700.000 fiale del Sinovac inviate dal governo di Pechino. All’arrivo dei Talebani, per l’Oms erano state somministrate appena 2,3milioni di dosi (principalmente a politici, sanitari e insegnanti), in un Paese con circa 40milioni di abitanti.

Kazakistan, i primi casi

A marzo 2020 ecco i primi 3 casi, con il governo che intraprende subito misure restrittive di tipo europeo. Grazie al Research institute for biological safety problems (Ribsp) creato dall’Urss nel 1958, il Kazakistan partorisce 2 vaccini: il QazCovid-In (registrato il 13 gennaio 2021 e per il quale l’Oms sta analizzando il via libera internazionale) e il QazCoVac-P (sperimentazione sull’uomo iniziata il 15 giugno 2021). Soltanto Russia, Cina e Stati Uniti ne hanno 2 propri. A fine maggio 2021, l’Oms loda il modello gestionale kazako. Grande quanto l’Europa intera ma con appena 16milioni di abitanti, al 19 settembre 2021 il Kazakistan ha completato il ciclo a 6,1milioni di persone (il 33,3% della popolazione, sopra la media mondiale del 32,2%).

Il Kirghizistan e il buon vicino cinese

Già dopo i primi 3 casi registrati il 18 marzo 2020, il Paese viene ammesso all’assistenza finanziaria d’emergenza del Fondo monetario internazionale (Fmi) e adotta misure di contenimento di tipo europeo (al 23 settembre 2021: 178.036 casi e 2.595 vittime). Ma nonostante una popolazione di appena 6,5milioni di abitanti, gli ospedali vanno ugualmente in tilt (a settembre 2021 la quarta ondata). Indietro anche la campagna vaccinale, partita solo a marzo 2021 grazie a donazioni russe dello Sputnik V, del cinese Sinopharm (regalato anche dalla Turchia), a inferiori fiale di AstraZeneca via Onu. A settembre 2021 i vaccinati erano 700.000. Il presidente kirghizo Sadyr Japarov, nell’incontrare quel mese il consigliere di Stato e ministro degli Esteri cinese Wang Yi, ha ringraziato pubblicamente la Cina per i vaccini e alimenti forniti, considerando Pechino “un buon vicino, un buon amico e un partner affidabile” con il quale rafforzare la cooperazione.

Uzbekistan

Anche l’Uzbekistan, sul modello kirghizo, ha rapidamente adottato misure simili a quelle europee, applicandole in modo rigido (al 23 settembre 2021: 170.520 casi e 1.207 vittime). Nel tentativo da parte del presidente Shavkat Mirziyoyev di ottenere nuova forza politica nella regione, il Paese sta cercando di entrare nel business del momento: da gennaio 2021 sta testando sugli animali «un vaccino transgenico commestibile al pomodoro»

Il Tagikistan corre ai ripari

Per il repressivo governo tagiko, al potere senza opposizione, fino a metà giugno 2021 casi e vittime erano pari a zero. La popolazione riempiva i social con l’esito dei propri tamponi positivi, eppure il 26 gennaio 2021 il Presidente Emomali Rahmon dichiara in Parlamento: “Il Tajikistan oggi è libero dal Covid-19”. Peccato che a luglio 2021, il Coronavirus entra ufficialmente anche nella famiglia presidenziale: 10 membri contagiati, la suocera Uzbekbi Asadulloeva e la sorella del capo di Stato Kurbonba Rakhmonova vittime della Covid19 . A quel punto cambia la strategia. Il Covid19 c’è e il Tagikistan diventa il primo al Mondo a rendere obbligatoria la vaccinazione per i maggiorenni. Ma non si sa bene come, visto che, sempre a luglio 2021, dagli Stati Uniti arrivano 1,5milioni di dosi Moderna, a fronte di una popolazione di 9,6milioni di abitanti (al 23 settembre 2021: 17.084 casi e 124 vittime).

Turkmenistan “covid-free”

Anche il Presidente turkmeno Gurbanguly Berdymukhammedov (ex dentista), nella propria propaganda di Stato cerca di offrire al Mondo l’immagine di una nazione sana: contagi pari a zero, i decessi semplici polmoniti. Tesi quasi sempre confermata alla popolazione (5,5milioni di abitanti) persino dai medici, per paura di contraddirlo. Nel pieno della pandemia mondiale Berdymukhammedov aveva del resto spiegato che contro il Coronavirus basta la liquirizia. Il 25 agosto 2021, il Presidente ha destituito o licenziato alcuni alti funzionari pubblici che avevano adottato misure restrittive (tra cui ministri, viceministri e persino il vicepremier) accusandoli di allarmismo. Ma la situazione sarebbe drammatica, secondo testimonianze anonime di operatori sanitari.

La Cina e la “Covid economy”

La Cina è stata prima a entrare nella cosiddetta “Covid economy”: non ha mai imposto divieti di esportazione per i dispositivi medici e da quando ha autorizzato il suo primo vaccino (30 dicembre 2020) e ha rimodulato il suo progetto di nuova “Via della Seta” infrastrutturale e commerciale anche in chiave sanitaria. “Tratteremo il vaccino come un bene pubblico globale”, assicurò già a maggio 2020 il presidente Xi Jinping. Ma quelle preziose fiale sono la nuova leva della diplomazia e dell’influenza cinese in mezzo Mondo: escluso l’Occidente, vista la mancata approvazione di quei vaccini, forniture gratuite a 69 Paesi in via di sviluppo, a pagamento in 43 nazioni. Mostrando così al Mondo la propria forza anche in campo farmaceutico, già nota da tempo in Asia e Africa. Intanto in patria, secondo la Commissione nazionale per la sanità, due miliardi di dosi somministrate a fine agosto 2021, con 889milioni di persone (su 1,4 miliardi di abitanti) a completare il ciclo (al 23 settembre 2021: 95.894 casi e 4.636 vittime). Ma nonostante ciò ciclicamente viene registrato qualche nuovo caso o focolaio (il peggiore da inizio pandemia nell’estate 2021), che porta a test di massa su tutti i residenti e all’immediato, completo e rigido lockdown nel luogo in cui è stato individuato (anche di città intere da numerosi milioni di abitanti).

India: travolti dalla pandemia

L’India conta poco più di 1,3 miliardi di abitanti, che sommati agli 1,4 miliardi della Cina costituiscono quasi il 40% della popolazione mondiale. Ma a differenza del “gigante asiatico” dal sistema politico autoritario e centralizzato, l’India democratica e decentralizzata è stata letteralmente travolta dalla pandemia. Ad aprile 2021, nel pieno di un’ondata che faceva registrare il doppio dei casi di Stati Uniti e Brasile (gli altri due Paesi allora più colpiti) e un elevatissimo numero di morti, il Covid19 non ha fermato né il pellegrinaggio Kumbh Mela (tra i maggiori al mondo), né la campagna elettorale. Prima della pandemia, l’India era il più grande produttore di vaccini nel Mondo ma con soltanto un proprio siero (il Covaxin) è diventata concorrente dell’Europa, affidandosi a quelli Occidentali e sospendendo temporaneamente le proprie esportazioni (l’AstraZeneca, prodotto direttamente in patria col nome Covishield, veniva fornito ad oltre 70 Paesi).

Intanto nel Sudest

In Myanmar (al 23 settembre 2021 ufficialmente: 451.663 casi e 17.266 vittime), in seguito al colpo di Stato che il 1° febbraio 2021 ha messo fine al governo civile di Aung San Suu Kyi, i militari al potere si sono dimostrati incapaci di controllare la diffusione del contagio. Anche solo le informazioni risultano parziali e carenti. Ad agosto 2021, il direttore in Myanmar del Programma alimentare mondiale dell’Onu (Wfp), Stephen Anderson, ha denunciato che la terza ondata della Covid-19 è “uno tsunami che ha colpito questo Paese”, che la popolazione birmana sta “sperimentando il momento più difficile della propria vita”, che “tra gli attuali disordini politici e la crisi economica, l’impatto della povertà si è triplicato”. Intanto la Cina, principale alleato della giunta militare al potere, dopo aver fornito all’esercito birmano 13milioni di dosi di vaccino, il 22 settembre 2021 ha annunciato l’invio di migliaia di vaccini, personale sanitario e materiale per costruire centri di quarantena, persino alle milizie che combattono i golpisti. L’obiettivo di Pechino è evitare la propagazione di nuovi casi nel proprio territorio attraverso il lungo confine tra i due Paesi, che corre per circa 2.000 chilometri.

Ritenendo tardiva e inefficace la risposta del Governo della Thailandia contro la Covid-19, nell’estate 2021 migliaia di persone sono scese in piazza contro l’esecutivo guidato dal generale Prayuth Chan-o-cha (salito al potere nel 2014 grazie a un colpo di Stato). Le manifestazioni, duramente represse dalle forze dell’ordine (anche con cartucce made in Italy), hanno visto la partecipazione in massa delle fasce della popolazione maggiormente impoverite dalla pandemia: a causa della seconda pesante ondata di contagi era stata cancellata la tanto attesa riapertura senza quarantena ai turisti completamente vaccinati, le attività commerciali della capitale Bangkok chiuse. Ad essere messo in discussione anche il tardivo e problematico avvio della campagna vaccinale, cui si è aggiunto l’affidamento della produzione di AstraZeneca alla locale Siam Bioscience, mai attiva in un questo ambito e controllata del re, Maha Vajiralongkorn.

Il più grande Paese musulmano al Mondo per numero di credenti, nonché principale e più popolosa economia della regione è stato uno dei più colpiti al Mondo dal Covid19, il maggiore del Sudest asiatico. Tra i problemi dell’Indonesia (al 23 settembre 2021: 4.201.559 casi e 141.114 vittime), la difficile geografica arcipelagica (oltre 17.000 isole) e le carenti strutture sanitarie (a corto di ossigeno e posti letto). Il programma di vaccinazioni, iniziato a gennaio 2021, ad agosto aveva raggiunto le 100milioni di dosi di vaccino somministrate, in una nazione che però conta 270milioni di abitanti. Anche attraverso accordi bilaterali per il cinese Sinovac e con i britannici di AstraZeneca (cui si sommano le donazioni del programma Onu Covax) punta a vaccinare 181,5milioni di persone entro il 31 dicembre 2021. A causa dell’elevato numero di contagi sotto i 18 anni, a sostegno del Governo, oltre alla Banca mondiale, c’è il Fondo Onu per l’infanzia (Unicef). Quest’ultimo, assieme alla Nahdlatul Ulama (la più grande organizzazione musulmana dell’Indonesia), contribuisce anche alla “maggiore accettazione del vaccino da parte di diversi eminenti studiosi religiosi della Giava orientale”

La strategia continentale africana

L’Africa continua a essere il continente meno colpito – per numero di casi e di vittime – dal Covid-19: a fine settembre 2021 il numero totale dei positivi accertati ha superato gli 8milioni con oltre 200mila vittime nell’intero Continente, mentre ad esempio l’America oltrepassa i 90milioni di contagiati e l’Europa i 70, e i morti totali nel Pianeta sono oramai 5milioni. Va anche detto, però, che i dati, per quanto riguarda il Continente nero, non sono tuttavia così attendibili a causa degli scarsissimi mezzi di monitoraggio e di tracciamento del virus, per cui si tratta senz’altro di numeri sottostimati.

Permane anche l’anomalia di una concentrazione di casi in pochissimi Stati: poco meno del 60% dei contagi delle 54 Nazioni africane si concentra in tre Paesi: Sudafrica (quasi 3milioni), Marocco (1milione) e Tunisia (oltre 700mila). Sono ben 48 i Paesi sotto i 100mila e la metà è sotto i 35mila.

A poco meno di due anni dall’inizio della pandemia si confermano, dunque, alcuni fattori, che possono spiegare per l’Africa il diverso andamento dei contagi rispetto al resto del mondo: la bassa età media del Continente ha ridotto la forza diffusiva del virus e il numero di individui che hanno avuto forme lievi di malattia, nel contempo la scarsa efficacia dei sistemi di monitoraggio ha intercettato una parte minima dei casi paucisintomatici e asintomatici, dando un quadro parziale del numero di persone che si sono infettate con il Covid-19.

Altri elementi sono da un lato il fatto che l’Africa è l’unica area del mondo ad aver affrontato questa emergenza con una strategia pressoché continentale (a parte qualche eccezione di governi “negazionisti”), dall’altro ha giocato un ruolo favorevole la consapevolezza, in tanti Paesi africani, della minore capacità di contrasto alla malattia in termini di cure e ospedalizzazione, che ha spinto molti governi a operare sulla prevenzione attraverso i sistemi di protezione a basso costo (mascherine e disinfezione) e le campagne di sensibilizzazione, con un forte sostegno, in questa azione, da parte delle agenzie umanitarie Onu e delle Ong. Non solo. Anche la maggiore “familiarità” nel gestire le emergenze è stata d’aiuto: accanto a una epidemia “debole” come il coronavirus l’Africa si trovava già a fare i conti con più di cento altre malattie infettive in corso e una dozzina di emergenze umanitarie. Tanto per fare un esempio, in Nigeria la tubercolosi – una patologia facilmente curabile nei Paesi ricchi – uccide mediamente 18 persone al giorno.

Quello che si temeva, insomma, ossia un vero e proprio collasso dei sistemi sanitari, non è avvenuto. Ma resta una forte preoccupazione: la cosiddetta terza ondata del virus nel corso dell’estate 2021 ha colpito duramente anche in Africa, sempre con numeri e vittime più contenuti rispetto al resto del mondo, ma mettendo di nuovo in difficoltà le strutture sanitarie di molti Paesi, inadeguati a gestire un grande numero di casi gravi per la carenza di posti in terapia intensiva e per l’insufficienza di apparecchiature e farmaci.

Un altro fattore, purtroppo, rimane costante: le conseguenze più pesanti il Continente continua a subirle sul piano economico, sociale, lavorativo: pesanti sono i passi indietro sulle altre emergenze sanitarie (le affezioni da acqua impura, la malaria, l’Aids, la Tbc, la malnutrizione grave e acuta, responsabili di milioni e milioni di vittime in Africa), i posti di lavoro perduti sono decine di milioni, l’economia rimane in pesante recessione, i poveri estremi sono aumentati di almeno 100milioni. Come si è ripetutamente osservato, l’Africa, pur essendo la meno colpita dal virus, ne paga il prezzo più pesante. Un prezzo che poi, come un boomerang, pagheremo tutti, in termini di diseguaglianze globali e di nuovo impulso ai fenomeni migratori.

Il dato più eclatante è il debito estero medio dei 54 Stati africani: è salito di 6 punti rispetto all’anno scorso, ed è attestato intorno al 58%, il più alto negli ultimi 20 anni. Inoltre, se è vero che la crisi ha colpito il Mondo intero, è altrettanto vero, però, che le fragili economie africane non hanno risorse da destinare al rilancio: mediamente, i Paesi ricchi e quelli cosiddetti emergenti stanno investendo poco meno del 25% della ricchezza nazionale alla ripartenza; per l’Africa questa cifra si aggira intorno al 2%.

La “madre” di tutte le questioni è quella del vaccino. Alla fine di settembre 2021 solo il 4% degli africani ha ottenuto una dose di immunizzazione (contro il 34,3% di vaccinazione completa della media mondiale). Ancora una volta – e in questo caso in modo eclatante trattandosi di una pandemia mondiale che, come abbiamo visto, non rispetta certo i confini – la comunità internazionale non ha saputo affrontare il problema se non nella logica miope dello Stato nazionale: i Paesi ricchi si sono letteralmente accaparrati quantità di vaccini in misura esorbitante (anche 4 o 5 volte il proprio fabbisogno) mentre ogni politica mirata a una distribuzione equa dei farmaci è pressoché fallita o procede a rilento, come pure i tentativi di arrivare a un accordo internazionale sulla sospensione dei brevetti. È evidente a tutti che l’uscita dal tunnel della pandemia passa per una vaccinazione di massa, globale e planetaria. Ma questo non sta avvenendo e, per quanto visto finora, non avverrà.

All’interno dello stesso Continente africano, inoltre, quel 4% di vaccinati va poi scomposto nelle diverse situazioni dei singoli Paesi: a fronte di un Marocco che si avvia al traguardo del 30% di popolazione coperta almeno dalla prima dose, vi sono numerosi Stati che non sono nemmeno riusciti a partire con la campagna vaccinale.

L’estrema scarsità di dosi disponibili, poi, va a sommarsi ad altri problemi specifici che l’Africa deve affrontare: i problemi di distribuzione; la carenza di strade efficienti e di mezzi di trasporto adeguati; le difficoltà a garantire un’efficace catena del freddo che in regioni con poche infrastrutture e temperature tropicali ed equatoriali sono difficili da mantenere); la carenza di personale preparato e organizzato per condurre una campagna vaccinale capillare. Insomma, siamo di fronte a una sorta di “apartheid vaccinale”. Si ripete, anche per la pandemia, il drammatico deficit di diritti che l’Africa, anche in questo caso, subisce.

Tre i casi principali su cui vale la pensa di soffermarsi: quelli di Perù, Brasile e Colombia

Il caso Perù

Il Perù, con  più di 180.000 vittime , in un Paese di meno di 33milioni di persone è Paese del Mondo con il più alto tasso di mortalità per Covid19  in proporzione alla popolazione, pur con tutte le riserve necessarie, data la totale disomogeneità nel calcolo nelle varie zone del Pianeta. Fino a poco tempo fa, le morti in Perù erano riportate come morti per Covid solo se con  risultato positivo del test. Ma i dati sull’aumento dei decessi  rispetto al periodo pre-Covid19 hanno fatto capire che il numero di morti  derivato dall’infezione  doveva  essere molto più alto. I criteri di registrazione dei decessi per il Covid sono stati ampliati , e ora includono le persone morte entro 60 giorni da un test positivo, come pure i casi sospetti, anche in assenza di un test. Il risultato è che il Perù ha registrato circa il 150 percento  di morti in più di quanto avveniva in precedenza. Quali sono le cause di questo record?  La campagna di vaccinazione del Perù è stata lenta, con meno del 4 percento della popolazione vaccinato con le due dosi. E le misure di contenimento sono state inefficaci, a causa di una serie di problemi strutturali.

Questo benché il Perù abbia imposto uno dei primi e più severi lockdown in America Latina già nel marzo 2020, prima del Regno Unito e di altri Paesi europei. Questo primo lockdown è durato fino alla fine di giugno 2020. Un secondo blocco è stato introdotto nel gennaio di quest’anno nella capitale Lima e in altre nove regioni a seguito di un’ondata di infezioni che ha portato gli ospedali vicini al collasso. E’ stato imposto il coprifuoco e le persone potevano lasciare le loro case solo per i beni essenziali. Malgrado ciò,  le infezioni e le morti hanno continuato ad aumentare.

La crisi ha evidenziato una chiara inadeguatezza strutturale, con soli 1.600 posti letto di di terapia intensiva, e una scarsità di ossigeno che ha ostacolato l’opera di cura. Ma anche le misure di contenimento e di distanziamento si sono scontrate con condizioni sociali che le hanno rese impossibili o inefficaci. Più del 40% delle famiglie in Perù non possiede  un frigorifero, ha rivelato un sondaggio del governo del 2020. Queste famiglie non sono in grado quindi di fare scorte di cibo, e devono uscire ogni giorno per recarsi nei mercati, sempre affollati, e che il servizio sanitario ha indicato fin dall’inizio della pandemia come i principali focolai di diffusione del virus.

Oltre a questo, l’ultima indagine nazionale sulle famiglie suggerisce che l’11,8 percento  delle famiglie povere in Perù vive in case sovraffollate. Gli alloggi angusti rendono più difficile la distanza sociale e permettono al virus di diffondersi più facilmente. Sul piano sociale ed economico, il Governo ha approvato misure di sostegno per aiutare le persone che hanno perso il lavoro a causa della pandemia. Ma anche qui il Perù sconta una serie di arretratezze strutturali. Solo il 38 percento  percento degli adulti peruviani ha un conto bancario, rendendo i pagamenti digitali rapidi in gran parte impossibili.

Il caso Brasile

Il Presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, ha  suscitato scandalo e clamore, quando ha annunciato di voler ignorare le regole di vaccinazione imposte dall’amministrazione di New York  in occasione della sua partecipazione all’assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre, e confermando di non essersi mai vaccinato. Bolsonaro è l’unico leader del G20 che sostiene pubblicamente di non essere stato vaccinato. Intanto il Covid 19 ha ucciso quasi 600.000 brasiliani, e ne ha infettati più di 20milioni.

.Intanto la casa farmaceutica Pfizer è stata accusata di tenere il Brasile “in ostaggio” dopo che sono state rese pubbliche alcune clausole del contratto di fornitura di 100milioni di dosi del proprio vaccino che la metterebbero al sicuro da procedimenti legali in caso di effetti  collaterali. Nell’accordo da 1 miliardo di dollari con Pfizer, firmato a marzo, il Governo brasiliano ha accettato che “venga firmata una rinuncia alla responsabilità per eventuali effetti collaterali del vaccino, esentando Pfizer da qualsiasi responsabilità civile per effetti collaterali derivanti dal vaccino, a tempo indeterminato”. Il contratto prevede che il Brasile, in caso di controversie,  ceda la propria giurisdizione ai tribunali statunitensi.

Effetto o meno della pandemia, in vista delle elezioni dell’ottobre 2022, gli indici di gradimento di Bolsonaro crollati. Un sondaggio dell’Istituto Atlas ha rivelato che il 61 percento  dei brasiliani  valuta l’ azione  del governo come “cattiva” o “molto cattiva”  rispetto  al 23% del gennaio 2019. Un tentativo di impeachment del Presidente sulla sua gestione della crisi del Covid è stato bloccato dallo speaker della Camera bassa del Congresso. A questa serie di scandali si aggiunge la notizia che 1000 donne brasiliane in gravidanza  sono morte quest’anno per Covid19. E ha portato alla luce come 1 su 5 donne in attesa non abbia accesso a terapia intensiva, e 1 su 3  all’ ossigeno.

Il caso Colombia

Identificata una nuova variante Covid-19, si tratta di Mu, scoperta per la prima volta in Colombia, nel gennaio 2021. È la nuova variante del virus Sars-CoV-2 segnalata nel report settimanale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità lo scorso 30 agosto. Si tratta della quinta variante di interesse, la cui rilevanza medica non si conosce ancora ma viene controllata con attenzione per la potenziale contagiosità. Sebbene al momento rappresenti lo 0,1% delle infezioni Covid 19 a livello globale, in Colombia e in Ecuador rappresenta il 39 e il 13% dei casi, e rappresenta quindi motivo di preoccupazione..

La maggior parte delle persone che sono risultate positive alla variante Mu avevano ricevuto almeno una dose di vaccino anti-Covid-19.  Un altro aspetto che mette in allarme è l’età media dei contagiati. A Londra ne sono stati rilevati 39 casi, tutti riconducibili a viaggiatori venuti da queste zone, e l’età media di essi è intorno ai 20 anni. Parte della preoccupazione per Mu deriva dalle particolari mutazioni che porta, che  possono aiutare il virus a eludere le difese immunitarie, facendone la variante potenzialmente più pericolosa, man mano che aumenta la percentuale dei vaccinati.

Negli Stati uniti i decessi per Covid 19 sono saliti nel settembre 2021a oltre 1.900 al giorno, il dato più alto dai primi di marzo. Il virus sta colpendo in gran parte i 71milioni di americani non vaccinati. Nel dicembre del 2020, quando ancora la campagna di vaccinazione non era decollata,  la media era stata di 3.000 morti al giorno. Il 64% della popolazione ha ricevuto almeno una dose.  Ma con un terzo della popolazione ancora non vaccinata, nella prima metà di settembre le morti sono aumentate del 40%, da 1.387 a 1.947, secondo i dati della Johns Hopkins University.

Numeri elevati

Dopo questa impennata, che colpisce quasi esclusivamente i non vaccinati, il numero totale dei morti per Covid 19 negli Stati uniti ha superato quello dell’influenza Spagnola del 1918. I decessi per Coronavirus sono infatti più di 716mila al 1 ottobre 2021 e hanni dunque supearto il numero delle vittime  dell’epidemia che seguì alla Grande guerra.

Mentre il Governo moltiplica i suoi appelli per vincere le resistenze di no-vax e timorosi, un dato positivo è costituito dall’annuncio di  Pfizer e BioNTech che i loro vaccini Covid-19  sono sicuri ed efficaci per i bambini dai cinque agli 11 anni. Un dato che ha una grande rilevanza soprattutto perché, se l’autorizzazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) sarà rapida, le scuole potranno riaprire in sicurezza, dopo un anno di chiusura quasi totale. La dose pediatrica, somministrata a un terzo del volume della dose per adulti, crea una risposta immunitaria “robusta” che si prevede protegga i pazienti bambini dalla malattia grave e dalla morte da Covid. Nel caso del vaccino  somministrato a 2.268 bambini, non si sono visti  effetti collaterali.

Le aziende stanno richiedendo l’autorizzazione di emergenza, con tempi assai più ristretti della norma.  Se la Fda applicherà questa procedura di emergenza, come avvenuto  per il vaccino degli adulti, le vaccinazioni dei bambini in età scolare potrebbero iniziare già a novembre. In settembre si è  visto il più grande aumento percentuale di casi pediatrici di Covid 19 dall’inizio della pandemia (Lee Savio Beers,  presidente dell’American Academy of Pediatrics  attribuisce  alla variante Delta questa impennata imprevista), cosa che ha fatto sorgere un movimento di pressione sulla Fda per una rapida approvazione del vaccino sui minori. Linda Hirshman, l’autrice di Victory: The Triumphant Gay Revolution, un libro che ricostruisce la vicenda delle cure anti AIDS,  dei mille ostacoli che la Fda oppose a quelle che si rivelarono poi efficaci, e poi della vittoriosa battaglia politica del movimento ACT UP, che ottenne un’accelerazione dei tempi per concederne l’approvazione, ha lanciato  un’iniziativa simile per accelerare l’autorizzazione del vaccino anti-Covid per i bambini.

Il vaccino e i problemi connessi a madri e bambini

L’approvazione dei vaccini per i bambini fra i 5 e gli 11 anni ha un’importanza enorme, poiché permetterebbe di riaprire le scuole in relativa sicurezza,  dopo più di un anno di chiusura. Tenere i bambini a casa ha significato un danno enorme non solo per i minori, ma anche per le madri.  Con scuole e asili chiusi, e settori dominati dalle donne come l’industria dei servizi colpiti particolarmente duramente, tra febbraio 2020 e marzo 2021 le donne sono state costrette a lasciare il lavoro in massa, e con percentuali assai più alta della popolazione maschile. Si stima che 1.8 milioni di donne abbiano abbandonato il lavoro retribuito in quel periodo, riportando a 30 anni fa il tasso di occupazione femminile negli Usa.

Nel dicembre 2019, prima della pandemia, le donne rappresentavano la maggioranza del lavoro salariato a stelle e strisce, con il 50.04%. Era la prima volta nella Storia che le donne erano la maggioranza della forza lavoro. Ma nei mesi di marzo e aprile 2020, circa 3,5milioni di madri di bambini in età scolare hanno lasciato il lavoro retribuito. Malgrado un recupero dovuto alla campagna vaccinale, a gennaio 2021 ancora 1,4milioni di madri di bambini in età scolare erano rimaste senza lavoro.

Per calcolare l’impatto su tutta la società di questo fenomeno, si consideri che, secondo uno studio del Center for American Progress, nel 2017, prima del Covid, il 41% delle donne era l’unica o la principale fonte di reddito del proprio nucleo familiare. Intanto, i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie   hanno approvato la terza dose di richiamo per milioni di americani più anziani o altrimenti vulnerabili, aprendo una nuova importante fase nella campagna di vaccinazione. I richiami dovrebbero essere destinati alle persone di età pari o superiore a 65 anni, ai residenti delle case di cura e alle persone di età compresa tra 50 e 64 anni che hanno problemi di salute. Il richiamo sarà inoculato ad almeno sei mesi dalla dose precedente.

L’obbligo di vaccinazione Covid-19 in tutto lo Stato di New York per gli operatori sanitari di ospedali e cliniche potrebbe  portare a carenze di personale. Non solo di medici e infermieri , ma anche di personale di servizio, come addetti alla ristorazione e alle pulizie. La disposizione concedeva loro  tempo fino al 27 settembre per  sottoporsi alla prima dose, condizione indispensabile per non perdere il lavoro. Ma malgrado questa minaccia, molti operatori ancora risultano non vaccinati. Questo suscita preoccupazione, perché potrebbe portare a un ulteriore crisi del sistema sanitario, già provato dalla pandemia.

Divenuta nella primavera 2020 l’epicentro della pandemia da Covid19, la Regione Europea ha visto 58,41milioni di casi confermati di Coronavirus e 1,21milioni di morti, con un picco registrato tra i mesi di novembre 2020 e febbraio 2021 – quelli della cosiddetta “seconda ondata”, nella quale si iniziavano a registrare le prime “varianti” del virus. Cruciale nella lotta alla pandemia si è rivelato l’intervento delle istituzioni europee che – come vedremo in dettaglio – hanno sostenuto gli Stati Membri dal punto di vista finanziario, vaccinale ma anche sanitario.

Dopo diversi lockdown – nazionali, regionali e locali – la Regione Europea ha registrato una riapertura durante l’estate, dovuta in parte ai dati più positivi dovuti ai fattori stagionali, e in parte alle campagne di vaccinazione contro il Covid-19. È stato grazie all’estensiva vaccinazione della popolazione adulta che i Paesi del continente hanno attutito l’impatto della cosiddetta “Variante Delta”: nonostante questa variante sia più contagiosa e più letale delle precedenti, non si sono registrati in Europa ospedalizzazioni, ricoveri in terapia intensiva o decessi paragonabili a quelli delle prime due ondate.

Vaccini e riaperture

Dopo un anno costellato da lockdown nazionali e locali, a febbraio 2021 l’Europa ha visto aprirsi lo spiraglio di un miglioramento permanente con l’inizio delle campagne vaccinali: in testa nella “corsa ai vaccini” il Regno Unito, che ha somministrato la prima dose di vaccino l’8 dicembre 2020, in anticipo rispetto al resto del mondo. A breve, anche l’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) ha dichiarato sicura la formulazione, iniziando così le somministrazioni nel resto del continente a gennaio 2021. Pfizer-BioNtech (brevettato dalla tedesca Pfizer), Oxford-Astrazeneca di formulazione inglese, e gli statunitensi Moderna e Johnson & Johnson sono le formulazioni approvate (in quest’ordine) dall’Ema. Mentre il Regno Unito pianifica di iniziare con la somministrazione di Janssen, è chiaro che nel continente il vaccino russo Sputnik V non ha preso piede (con l’eccezione dell’Ungheria) – una decisione che il presidente Putin non ha mancato di commentare come strumentalizzazione della pandemia in chiave politica. Da gennaio a settembre 2021 il 72.6% dei cittadini adulti dell’Unione Europea hanno ricevuto entrambe le dosi di vaccino, mentre il 78% de totale ne ha ricevuta almeno una: si avvicina così il tanto agognato obiettivo dell’immunità di massa.

Effetto diretto della vaccinazione di ingenti percentuali di popolazione è l’applicazione, da parte dei vari governi nazionali, di misure come il “green pass” per regolamentare l’accesso ad ambienti chiusi (scuole, posti di lavoro, locali pubblici) dove il rischio di contagio è elevato. Il green pass, misura di respiro europeo prevista per facilitare e uniformare le norme di viaggio tra Paesi dell’Unione, è stata adattata da Stati come Francia, Danimarca e Italia per garantire le ripartenze di attività commerciali e turistiche in sicurezza. La Danimarca, che era stata il primo Paese a fare uso del green pass in tal senso in aprile, ha ora revocato la misura poiché – dichiara – l’emergenza Coronavirus nel Paese è stata superata. Spagna e Germania lasciano la decisione sull’uso del green pass rispettivamente alle autorità locali e ai Lander, mentre il Regno Unito (che non fa uso del green pass bensì di documentazione equivalente, essendo uscito dall’Unione Europea) vede l’applicazione del certificato vaccinale solo in Scozia.

L’Unione fa la forza: strategie sanitarie, fiscali, e di politica estera

I Paesi dell’Unione Europea hanno sperimentato nella pandemia un sostegno da parte delle istituzioni senza precedenti. Per Bruxelles, infatti, la lotta al Coronavirus ha rappresentato un’opportunità per massimizzare il potenziale delle istituzioni che da anni riscontravano resistenze nazionali alle politiche comuni.

Dal punto di vista sanitario, per sollevare la gravissima pressione sui sistemi sanitari e ospedalieri, l’Unione Europea ha messo in piedi già nei primi mesi di emergenza una strategia per l’approvvigionamento comune di materiale sanitario, tra cui dispositivi di protezione e respiratori. Non si è trattato solo di un esercizio di solidarietà europeo: quello della Commissione si è rivelato anche un primo banco di prova dell’autonomia strategica predicata da Bruxelles, per contrastare campagne come quelle di Cina e Russia, che avevano strumentalizzato l’invio di materiali medico-sanitari a fini propagandistici e di misinformazione.

Similmente, l’Unione ha affrontato compatta la corsa ai vaccini: centralizzando l’acquisizione di dosi e la successiva redistribuzione agli Stati Membri, Bruxelles ha giocato forse uno degli azzardi più grandi nella sua partita: molti i Paesi che hanno tentato di negoziare direttamente con i produttori l’acquisto di dosi aggiuntive, ma nel complesso la promessa europea di vaccinare il 70% della popolazione entro l’estate 2021 è stato mantenuto – nonostante i ritardi nella consegna di scorte vaccinali che hanno caratterizzato la primavera.

Ma la vera vittoria senza precedenti per i Paesi dell’Unione Europea è quella riscontrata in ambito fiscale ed economico. Già nel 2020 la BCE aveva annunciato la sospensione delle regole in materia di pareggio di bilancio, un investimento di oltre 750 miliardi per la lotta alla pandemia, e lo sblocco del Fondo di Solidarietà Europeo. A ciò si è aggiunto un ambiziosissimo Next Generation EU, fondo per la ripresa europeo, che permette ai Paesi di accedere a oltre 670 miliardi di euro da investire in progetti per la digitalizzazione, la transizione climatica, e l’impiego. Quanto a misure per i lavoratori, con il fondo SURE le istituzioni guardano ad imprese e lavoratori, sostenendo in particolare l’impiego giovanile e il lavoro femminile, categorie colpitissime dalla crisi economica del 2020.

Grazie anche ai 2364 miliardi impiegati in tutto dall’Unione – combinati con la ripresa delle attività economiche, l’andamento positivo dei mercati mondiali e la minore incertezza dovuta alla vaccinazione di massa, la crisi economica che ha seguito la pandemia ha permesso ai Paesi europei un rimbalzo: l’importante, come hanno ripetuto le istituzioni europee, è che la crescita prevista per il 2021 e 2022 sia in nome della sostenibilità – finanziaria, ma anche ambientale.

Politica estera, politica interna: l’Unione di domani

Forte del suo rinnovato ruolo all’interno dei suoi confini, l’Ue guarda all’esterno con ambizione. La strategia per l’Indopacifico, in arrivo entro il 2021, dimostra la volontà dell’Unione di essere un attore internazionale – una volontà già dimostrata con la massiccia partecipazione a Covax: 500milioni sono stati destinati dalla BCE per la distribuzione equa di dosi vaccinali nel mondo, che si uniscono all’impegno preso dai singoli Stati Membri.

Nel frattempo, la pandemia acuisce anche le tensioni interne: la Polonia, stato membro problematico che nel 202 ha utilizzato la legislazione d’emergenza per dare una stretta ai diritti, è stata sanzionata dall’Ue per il mancato rispetto dell’indipendenza giudiziaria. In quella che è ormai una lotta radicata nell’applicazione dello stato di diritto (principio chiave in Ue) anche l’Ungheria è sul filo del rasoio: l’UE ha negato la concessione del Recovery Fund al Paese a causa delle discriminazioni nei confronti delle persone Lgbtq.

Russia in controtendenza

In controtendenza rispetto al resto del Mondo, la Russia nell’autunno del 2021 è ancora in piena crisi da contagi, con almeno 20mila nuovi positivi al giorno.  Secondo i dati ufficiali sarebbero 207.255 i morti causa Covid19 al 30 settembre 2021, il numero più elevato in tutta Europa. In realtà. Gli esperti calcolano in almeno 350mila i morti russi. Di fatto, è il quinto Paese al Mondo nella triste classifica dei più colpiti.

A rendere complessa la situazione è stata anche la variante Delta, che da giugno 2021 rappresenta il cento per cento dei nuovi contagi. Inoltre, la percentuale di vaccinati resta molto bassa. La popolazione appare scettica sui vaccini, così la percentuale di vaccinati completi arriva appena al 28%. Per ammissione delle stesse autorità di Mosca, che non hanno introdotto l’obbligo di vaccino, questo non fa ben sperare: meno della metà della popolazione adulta russa ha ricevuto almeno una dose.

Una situazione che non sfugge al Cremlino. Il portavoce, Dmitry Peskov, ha parlato ufficialmente di “serio motivo di preoccupazione”. Si cercano soluzioni, visto che anche l’economia del Paese, nonostante le prove muscolari di Putin in politica estera, è in recessione. Una prima iniziativa sembra essere un ripensamento sulla politica dei vaccini stranieri, nonostante Mosca ne produca uno in proprio. Il ministero della Salute ha lanciato la proposta di allentare le regole di importazione, per consentire così ai russi di farsi vaccinare anche con Pfizer/BioNTech o Moderna.

Armenia in stato di emergenza

Dopo aver registrato i primi casi di Covid19 a marzo 2020, l’Armenia ha dichiarato lo stato di emergenza ed il lockdown nazionale il 16 marzo. Nonostante le piccole dimensioni – conta circa tre milioni di abitanti – l’epidemia si è diffusa così rapidamente da farla risultare per alcuni mesi il secondo Paese al Mondo, dietro solo alla Repubblica Ceca, con il più alto numero di nuovi casi al giorno in rapporto alla popolazione. La curva dei contagi si è abbassata notevolmente alla fine dell’estate, ma lo scoppio della guerra in Nagorno- Karabakh, il 27 settembre 2020, ha vanificato gli sforzi dei mesi precedenti. Ad inizio ottobre erano già decine di migliaia gli abitanti del Karabakh ad essere sfollati in Armenia. Conseguentemente, i sistemi sanitari armeni e del Karabakh sono entrati in una crisi senza precedenti e gli ospedali, convertiti a centri per la cura dei pazienti affetti da Covid19, sono stati costretti a dare la precedenza ai feriti di guerra.

Dal punto di vista economico, secondo l’ultima analisi sulla povertà della Banca Mondiale, lo shock economico della pandemia (a cui va sommato il costo della guerra) potrebbe aver impoverito circa 70.000 armeni. Per quanto riguarda le vaccinazioni invece, secondo i dati emersi dagli ultimi sondaggi, sono in molti a rimanere scettici, ma in numero inferiore rispetto ai mesi precedenti.

Georgia: in aumento la povertà

Anche la Georgia ha dichiarato un lockdown nazionale a metà marzo e dall’inizio della pandemia ad oggi, i tassi di disoccupazione e povertà sono aumentati passando rispettivamente dal 17% circa (2019) al 22% (2021) nel primo caso e dal 19.5% (2019) al 21.3% (fine 2020) nel secondo caso. Ad aprile 2020, il governo georgiano ha stanziato circa 1 miliardo di euro da suddividere in pacchetti sociali, sgravi sociali ed esenzioni per le attività imprenditoriali per almeno sei mesi per arginare la crisi. A ottobre, poco prima delle elezioni parlamentari, il Governo ha annunciato un ulteriore pacchetto di assistenza sociale che è stato interpretato dall’opposizione e da alcuni gruppi della società civile come un gesto manipolatorio per attrarre voti. Lo stato d’emergenza è cessato il 23 maggio 2020, ma secondo quanto riporta Human Rights Watch, il Governo avrebbe ricevuto il via libera del Parlamento per limitare libertà, come quella di circolazione e riunione, senza dichiarare lo stato di emergenza fino al 15 luglio. I gruppi in difesa dei diritti umani hanno interpretato la concessione di questi ampi poteri al Governo senza il controllo parlamentare come incompatibili con la Costituzione.

In campo vaccinale, in Georgia, come in Armenia, sono in molti a rimanere riluttanti e i casi sono di nuovo in aumento. Il Primo ministro Irakli Gharibashvili ha attribuito il nuovo picco di contagi all’ondata di proteste “ irresponsabili” contro il suo governo.

L’Azerbaijan e la crisi del greggio

Così come gli altri due Stati caucasici, anche l’Azerbaijan ha introdotto speciali misure restrittive contro il diffondersi del virus a metà marzo 2020. Un anno e mezzo dopo, il bilancio della pandemia, a cui si è aggiunta la guerra con l’Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh, risulta drammatico. L’economia azera, dipendente soprattutto dal petrolio e già entrata in crisi da quando nel 2019 i prezzi del greggio sono diminuiti, ha subito un drastico crollo. Secondo le statistiche ufficiali il tasso di disoccupazione del 2021, che include solo coloro che sono ufficialmente registrati come disoccupati, risulta aumentato del 40% rispetto al 2019. Secondo quanto ha riportato all’istituto “War and Peace reporting” l’economista azero Gubad Ibadoglu, alla situazione di estrema crisi va aggiunta la corruzione. Infatti, continua Ibadoglu, nonostante durante la guerra non ci siano stati cambiamenti significativi nel livello di importazioni, ci sono state riduzioni significative nel budget di fine anno 2020, attribuibili secondo Ibadoglu appunto alla corruzione.

Dall’inizio di settembre, in Azerbaijan è diventato obbligatorio il certificato vaccinale per entrare nella maggior parte dei luoghi chiusi. Secondo molti, questa nuova misura favorirà il mercato illegale di certificati vaccinali falsi.

Australia e Nuova Zelanda, per la prima volta dall’inizio della pandemia, presentano un deciso peggioramento della situazione sanitaria. L’aggravamento è dovuto soprattutto ad una tardiva e lenta campagna vaccinale, che vede solo il 38% degli australiani ed il 42% dei neozelandesi completamente vaccinati. Ne sono scaturiti importanti dilemmi politici: proseguire la politica “zero contagi”, oppure accettare l’endemizzazione controllata del virus? Cruciali sono anche gli sviluppo geopolitici: il definitivo accasamento dell’Australia nell’alveo statunitense nel contenimento dell’espansionismo cinese, ed il cruciale ruolo politico-strategico assunto dall’Indo-Pacifico nello scontro sino-americano.

La situazione sanitaria

Il forte incremento dei malati di Covid-19 nei due Paesi è attribuibile all’interazione di 3 fattori: l’arrivo della stagione invernale, che nell’emisfero australe si sviluppa da giugno a settembre, con l’incremento della frequenza delle interazioni sociali in luoghi chiusi; la comparsa della più contagiosa variante Delta del virus; i bassi livelli di vaccinati raggiunti verso fine autunno, quando solo il 10-15% della popolazione era già stato immunizzato.

L’aggravamento dell’emergenza sanitaria ha portato alla sospensione della bolla di viaggio trans-tasmana: dal 21 giugno non è più permesso il movimento tra Australia e Nuova Zelanda, senza quarantena preventiva. Inoltre, mentre entrambe le isole risultano inaccessibili ai non-cittadini, i cittadini residenti all’estero che volessero ritornare nella propria terra natia dovrebbero sottoporsi a rigidissime procedure. Ad esempio Wellington permette l’accesso al Paese solo attraverso la quarantena preventiva in strutture residenziali sorvegliate dalle forze dell’ordine. I posti sono però limitati e prenotabili online: a settembre, i 3.800 disponibili sono stati esauriti in pochissime ore.

Questo modo di vivere non è più sostenibile”. E’ quanto ha dichiarato il Primo ministro australiano Scott Morrison il 23 agosto 2021, commentando la politica sanitaria adottata dal proprio Governo: lockdown e forti limitazioni alla libertà personale atte a perseguire la strategia “zero contagi” che ha reso celebri Australia e Nuova Zelanda. Il Premier conservatore ha quindi chiosato che l’obiettivo è quello di vaccinare l’80% dei cittadini entro la fine dell’anno, così da poter allentare le misure restrittive. Non è invece dello stesso avviso la Prima ministra laburista neozelandese Jacinda Ardern, che ha ripetutamente ribadito: “L’eliminazione del virus è la strategia migliore”. Le perplessità non mancano: per quanto quasi totalmente tracciati i contagi sono infatti sempre locali e non più importati come in passato. L’eradicazione locale del virus potrebbe quindi risultare non solo socialmente ed economicamente insostenibile, ma anche concretamente irrealizzabile.

La situazione geopolitica

La pandemia ha esacerbato rivalità regionali a lungo presenti nel Indo-Pacifico, prima fra tutte quella tra Australia e Cina. Dopo essersi scontrate su varie questioni: tecnologia 5G, isole cinesi artificiali nel Pacifico, diritti umani degli Uiguri, cyberattacchi subiti dalle istituzioni australiane e ricondotti a Pechino; Canberra ha esacerbato la conflittualità reclamando l’istituzione di una commissione indipendente da parte dell’Oms, al fine di determinare le responsabilità cinesi nello sviluppo della pandemia. Era il 2020 e la misura per Pechino era colma. Sono seguite azioni diplomatiche ostili e coercizione economico-commerciale: pesanti dazi su prodotti agricoli e alimentari australiani importati in Cina. Se però durante l’unilateralista Presidenza statunitense Trump, Canberra fu costretta ad intraprendere una via intermedia tra critica di Pechino e costante tentativo di mediazione volto a salvaguardare i rapporti con il primo partner commerciale, con l’avvento della più multilaterale Amministrazione Biden, il Paese dei Canguri ha deciso di accasarsi definitivamente nell’alveo statunitense, superando anche la paura di nuove ritorsioni economiche da parte della Cina. Quelle già in vigore sono infatti state ampiamente controbilanciate dall’individuazione di nuovi mercati. Due acronimi descrivono i mutamenti strategico-politici nella regione: Aukus e Quad.

Aukus e Quad

Aukus è il Patto strategico-commerciale di sicurezza siglato da Australia, Usa e Regno Unito all’inizio di settembre 2021. Un accordo che segna l’avvento di una corsa agli armamenti che vedrà Canberra acquisire la tecnologia per arricchire la propria flotta militare di sottomarini balistici a propulsione nucleare, da armare con missili balistici a lungo raggio. L’accordo è atto a creare un credibile deterrente militare contro l’espansionismo cinese. L’Australia diverrà così l’unica potenza non ufficialmente nucleare, oltre ad India e Brasile, a possedere sommergibili dotati di un’autonomia di navigazione e capacità di lancio nettamente superiori rispetto agli omologhi convenzionali. Washington ottiene così un importante successo: coinvolgere più attivamente una media potenza nel contenimento di Pechino.

Quad, il “Dialogo Quadrilaterale Strategico”, è invece una piattaforma diplomatica privilegiata che vede Australia, Usa, Giappone e India, le grandi democrazie affacciate sul Pacifico, cooperare per controbilanciare l’ascesa cinese e assicurare che la regione rimanga “libera ed aperta”. E’ nato nel 2017, ma il 24 settembre 2021 si è tenuto il suo primo incontro in presenza, alla Casa Bianca. L’occasione è stata definita “storica” dai 4 Paesi, che hanno esteso la propria cooperazione oltre all’ambito prettamente militare, rinnovando il proprio supporto all’Asean e ribadendo la volontà sia di sviluppare in maniera sicura la tecnologia 5G, che di combattere il cambiamento climatico. In ambito sanitario hanno invece assicurato la donazione di 1,3mld di dosi vaccinali agli Stati della regione ed istituito un gruppo di esperti per allineare le proprie politiche di gestione pandemica.

Insomma, per quanto Biden abbia negato al Palazzo di Vetro di cercare una nuova “Guerra Fredda” è sempre più evidente che lo scontro sino-americano non sia limitato a questioni meramente commerciali e politiche, ma sia piuttosto, come direbbe forse lo storico Federico Romero a tutto campo, rivolto anche a “cuori e menti” degli abitanti dell’Indo-Pacifico. Almeno questo sembra suggerire Pechino che, attraverso il portavoce del Ministro degli Esteri, ha invitato Washington ed alleati ad “abbandonare la mentalità da Guerra Fredda”.

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