La brutta pagina africana di Sama (e di Meta)

Il colosso informatico che lavorava per FaceBook lascia il Kenya. Una triste vicenda non solo sindacale

di Stefano Bocconetti

Una notizia di cronaca sindacale che arriva dall’Africa, dal Kenya. Una brutta, bruttissima notizia per chi ne “paga” le conseguenze e per chi perde il lavoro ma che nasconde tante altre cose. In pillole si tratta di questo: il colosso informatico Sama ha deciso di chiudere le sue sedi a Nairobi. Non è un nome molto conosciuto se non fra gli addetti ai lavori ma è un colosso nel settore. Un gigante che ha la sua sede a San Francisco ma non opera negli Stati Uniti. Lavora in outsourcing. Ha lavorato per conto di chi gestisce ChaptGPT, l’ormai celeberrimo bot dell’intelligenza artificiale che risponde a tutti, provando a “ripulire” il set delle sue informazioni da tutti i discorsi “tossici”, ma soprattutto lavora – lavorava – per conto di Zuckerberg. Lavorava per FaceBook, per Meta.

Cosa faceva? Allestiva sedi distaccate in tante parti del mondo, la dove può assumere personale pagato una miseria. E da lì avrebbe dovuto monitorare quel chescrivono gli utenti di FaceBook. Avrebbe dovuto controllare che non ci fossero messaggi inneggianti alla violenza, alla discriminazione. Agli omicidi. Gli uffici di Nairobi appunto avrebbe dovuto controllare tutto quel che scrivevano i quasi duecento milioni di utenti dei paesi dell’Africa sub sahariana.  Ora invece – esattamente due settimane fa – è arrivato l’annuncio che Sama rinuncia all’appalto, quattro milioni di dollari solo l’anno scorso e non modererà più i contenuti di FaceBook.

I dipendenti – poco più di cento – perderanno il lavoro, a loro sarà garantita una sorta di mini-indennità che comunque non comporterà una spesa ingente per il gruppo, visto che la retribuzione era meno di due dollari all’ora. L’annuncio viene spiegato dalla società con un comunicato assai prolisso, dove in realtà si parla d’altro, dove si fa il panegirico dell’intelligenza artificiale, che sarà “la nuova frontiera del futuro” e che da ora in poi sarà quello il settore nel quale investirà il gruppo. Nessun accenno alle ragioni dell’improvvisa chiusura dell”ufficio moderazione dei contenuti”.Che poi tanto improvvisa non è stata. In ogni caso, la chiusura della sede Sama a Nairobi è un favore a Zuckerberg. Che proverà a far dimenticare così tanti aspetti di questa storia.

Sì, perché Sama e di conseguenza anche Meta/FaceBook sono finiti molte volte sui media internazionali in questo periodo. Poco più di un anno fa, una vicenda che li riguardava conquistò addirittura la prima pagina del Time: un suo dipendente, un ragazzo sudafricano per primo denunciò le condizioni di lavoro alle quali erano costretti a Nairobi. Dieci, dodici ore al giorno davanti ad un computer. A guardare immagini di stupri, di violenze (“il primo video che ho dovuto segnalare era il taglio di una gola”), di omicidi. Il tutto per un dollaro e quarantasei centesimi all’ora.

Così, Daniele Motaung – questo è il nome del giovane sudafricano che si è ribellato – ha provato ad organizzare un sindacato. Chiedendo più salario, chiedendo sostegno psicologico per chi era costretto a guardare quelle immagini, a leggere quei messaggi. La risposta di Sama non si è fatta attendere: licenziato. Una storia come tante che sarebbe finita nel dimenticatoio. Se non fosse stata per l’ostinazione di Daniele Motaung che ha deciso di denunciare Sama e Meta/FaceBook per “induzione al lavoro schiavistico”.

Una mossa, supportata da tante organizzazioni per i diritti, a cominciare dall’inglese FoxGlove, che è riuscita almeno in parte a rompere il muro di silenzio che avvolge l’attività di moderazione dei contenuti in quei paesi. Al punto che sulla vicenda hanno preso posizione in tanti a cominciare da Shoshana Zuboff e Cory Doctorow, fino a Frances Haugen. Sì, proprio la «whistleblower» che per prima raccontò quanto guadagnasse FaceBook dalla crescita dell’odio sui social. Perché più violenza significa più traffico on line. E che in quest’occasione ha denunciato il razzismo insito nei “due pesi” utilizzati dal social network: costretto ad intervenire – anche se con colpevole ritardo –, capace alla fine di intervenire se la violenza riguarda l’assalto a Capito Hill ma completamente disinteressato a quel che accade “fuori dal mondo occidentale”.  

E non è finita. Perché sull’onda di questa campagna, FaceBook e Zuckerberg hanno dovuto affrontare – stanno per affrontare – un’altra denuncia. Riguarda l’Etiopia, il Paese sconvolto da una guerra che è costata centinaia di migliaia di vittime. Qui proprio nella capitale Addis Abeba, viveva uno stimato professore di chimica, insegnava all’università Bahir Dar. La sua colpa? Essere di origine tigrina, nel pieno del conflitto fra l’Etiopia e la regione dalla quale proveniva.

Lui nonostante le minacce ha continuato ad insegnare. Finché, un anno e mezzo fa, su FaceBook sono apparsi messaggi che lo indicavano come un obiettivo da colpire. “Per dare una lezione a tutti quelli della sua razza”. Dopo il primo, sono seguiti tanti altri messaggi, rilanciati dagli utenti. Qualcuno ha provato ad avvertire il professore che però non se n’è curato. Fino ad una mattina, quando un gruppo armato lo ha aspettato fuori dalla sua abitazione e l’ha ucciso, sparandogli alla schiena. E aspettando davanti al suo corpo fino a che non è morto dissanguato. Ora, il figlio del professore ha intentato una causa a FaceBook, sostenuto anche in questo caso dalla ong FoxGlove, imputando al social la responsabilità per il sostegno oggettivo offerto agli assassini di suo padre. E l’ha fatto con un esposto presentato a Nairobi. Perché è dalla capitale keniana, esattamente dagli uffici della Sama, che dovevano essere cancellati i messaggi che incitavano all’omicidio.

In questa situazione, ecco l’annuncio di rinuncia all’appalto di Meta/FaceBook. Annuncio che arriva esattamente nel momento nel quale stava per nascere il sindacato, sulla spinta di Daniel Moutaug, in attesa della sentenza del tribunale keniano. Paese dove sono garantite – almeno sulla carta – i diritti di organizzazione dei lavoratori. Un ritiro, quello di Sama, che sembrerebbe proprio togliere le castagne sul fuoco a Zuckerberg. Ma che non convince nessuno. Nessuno. A cominciare da chi le vicende di FaceBook in Africa le segue da vicino. Cori Crider, è il co-direttore di Foxglove. Ed è piuttosto esplicito a riguardo: “La decisione di Sama di rinunciare all’appalto proprio mentre i lavoratori si stavano organizzando per condizioni migliori mostra quanto siano codardi”.

Codardi, al plurale: Sama ma anche FaceBook. “Si – prosegue Cori Crider – proprio nel momento in cui Meta si trova in brutte acque per le terribili condizioni di lavoro che sembra tollerare nel mondo, il gruppo si muove per nascondersi dietro ad un’altra società”. Nascondersi. Perché da quel che si sa, Meta/FaceBook avrebbe già pronto un altro contratto. Stavolta con la Majorel, una società con sede in Lussemburgo. Un altro gruppo di outsourcing che magari aprirà nuovi uffici a Nairobi. O a Kampala o a Dodoma. Magari pagando ancora meno di un dollaro e sessanta centesimi all’ora, un centinaio di persone. Che certo non potranno scoprire nulla di chi vuole usare FaceBook per propagandare la violenza. E al prossimo scandalo saranno mandate via.

*In copertina e nel testo: Nairobi in uno scatto di Amani Nation

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