8 marzo 2023. I passi da fare

Questa data sta alla Festa della donna come pari opportunità sta all’assenza di equità di genere. Ancora 

di Miriam Rossi

È più forte di me. Ultimamente non posso fare a meno di scrutare i nomi dei responsabili di consigli di amministrazione e di comitati scientifici di qualsiasi istituzione per vagliare il numero delle donne presenti. Sempre inferiore a quello degli uomini, ad eccezione delle Commissioni che si occupano di pari opportunità. In quegli organismi, eventi e strutture la percentuale delle donne corrisponde quasi sempre al 100%, come se per intendersi di pari opportunità occorra essere donna e non fosse un problema sociale generalizzato. Chissà perché in questo caso la sensibilità è competenza, abilità e titolo per operare, rafforzando il più comune degli stereotipi di genere sull’innata sensibilità femminile. E se si cambia su questo punto, non saranno normative scritte (o una prassi “per evitare le rogne delle femministe”) a garantire una pari rappresentanza della donna negli scranni della politica e ai vertici del sistema produttivo e gestionale.

Oggi ricorre la Giornata internazionale dei diritti della donna. Una giornata di rivendicazioni urlate sui giornali, sui social e anche in piazza. Una giornata di festeggiamenti reclamando libertà e parità di trattamento sul lavoro come a casa. Ma nonostante l’Italia possa oggi vantare una donna come presidente del Consiglio e un’altra leader di uno dei principali partiti politici, la condizione della donna in Italia non si misura sul ruolo di Giorgia Meloni o di Elly Schlein. Specialmente quella in ambito lavorativo. Secondo il Rapporto 2022 dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), l’occupazione in Italia è in crescita ma non intacca il divario di genere: se il tasso di occupazione maschile tocca il 69,5%, quello femminile è del 51,4%. Occupazione ridotta, prevalentemente precaria, part time e in settori a bassa remuneratività o poco strategici: tutte criticità strutturali che caratterizzano la condizione femminile. Sono due, in particolare, i fattori di debolezza della donna sul lavoro: forme contrattuali precarie e a tempo parziale. Part-time al 49% per le donne contro il 26,2% degli uomini; sono part-time uno su due dei contratti a tempo indeterminato femminile. Insomma: la donna lavora meno, in condizioni più precarie e guadagnando meno soldi. Una scelta, quella del part-time, il più delle volte richiesta per esigenze di conciliazione con la famiglia. Come direbbero le femministe di una volta, chiamate a parlare oggi: negli anni Sessanta e Settanta, abbiamo chiesto la parità sul lavoro e ci siamo ritrovate in effetti ad avere il diritto di lavorare ma a mantenere il carico della cura dei figli e della casa. In Italia nel 2021 la quota di tempo dedicato dalle donne tra i 25 e i 44 anni al lavoro familiare è in media pari al 62,6% del tempo di lavoro complessivo di una coppia di partner, entrambi lavoratori, con uno squilibrio territoriale significativo tra Sud (69,9%), Centro (62,4%) e Nord (60,0%). E i dati che emergono dal post-pandemia segnano un ulteriore aumento del divario di genere nello svolgimento dei lavori di cura a sfavore della donna. E così non va.

Non va quando leggi di fondi europei per la creazione di asili nido in tutta Italia che sono inutilizzati per incapacità gestionale e burocratica, e si perdono nell’apparente generale disinteresse mentre, ad esempio, nella vicina Germania tutti i bambini hanno diritto a un posto all’asilo nido e, addirittura, a Berlino la frequenza è gratuita per tutti. Non va quando l’ultima riforma del 2022 ha portato i giorni di congedo di paternità obbligatoria ad appena 10, facendoli passare come una grande conquista. Non va quando le aziende ai colloqui di lavorano esplorano la tua “situazione familiare” solo se sei una donna o quando sei in stato in gravidanza e sul lavoro la domanda di colleghi e superiori è “Che intenzioni hai per dopo?”, e tu sai bene che questa domanda non è mai stati rivolta al tuo partner. Non va quando ad appena 4 anni i bambini della Scuola dell’infanzia tornano a casa per la festa della mamma con un biglietto che descrive la mamma come “bella ed elegante” e per la festa del papà con un altro biglietto con un uomo impegnato al lavoro con una cravatta al collo sicuramente “bravo” più che bello ed elegante.  Non va quando esiste un doppio standard pubblico di gestione della casa per l’uomo eroe che se ne occupa e per la donna che fa (o meno) il suo dovere.

Non va quando la sacrosanta lettera rivolta alla presidente Giorgia Meloni da parte del sindaco di Crotone, Vincenzo Voce, per l’assenza del Governo dinanzi alla tragedia dei migranti consumatasi a Cutro fa appello all’istituzione prima e alla sua sensibilità come madre poi. E ci si chiede se analogo appello sarebbe stato rivolto ai tanti premier che l’hanno preceduta “in quanto papà”. Non va neanche quando sei stanca di dover spiegare perché ti porti a casa un po’ di fastidio da un bello spettacolo teatrale per bambini di un ottimo attore di una qualunque domenica mattina quando quest’ultimo in scena improvvisa un richiamo a “una mamma” per gli urgenti bisogni del figlio prima e “a un’altra mamma” per la necessità di rivestire il bambino per uscire dal teatro poi. Sei stanca perché lo hai notato solo tu probabilmente. Sei stanca perché sai bene che è una fesseria rispetto a problemi ben più grandi della questione femminile ma sai altrettanto bene che “quella mamma” cercata in sala passerà (lo auspichi) ancora un bel po’ di anni prima che sia sostituita da un papà.

 

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