Dossier / È diventata una follia generale

Matthias Canapini ha più volte percorso a piedi, negli scorsi anni, le "Rotte migranti" raccontando attraverso i suoi incontri questa umanità in cammino. Qui ci racconta la sua esperienza in Grecia.

Di Matthias Canapini

Nel novembre 2015, l’anno del grande esodo, a Gevgelija si era creato in brevissimo tempo un piccolo business: per tutti i migranti e profughi interessati a raggiungere Skopje i tassisti macedoni mettevano a disposizione un’automobile per la cifra di 25 euro a persona. Oltre quel malandato cancello di metallo si accalcavano centinaia di persone e i padri, all’estremo delle forze, si prendevano a cazzotti per farsi largo. Lo ricordo come fosse un quadro dipinto col sudore. L’unico a essere rimasto al suo posto da allora è Padre Dimitri Tasev, parroco cattolico dell’ordine bizantino e cappellano della chiesa cattolica locale. “Lavoro dentro al campo profughi di Gevgelija dal 2015. Non sono mai andato per predicare il Vangelo, bensì per donare pane e fratellanza. Non c’è alcune differenza tra noi e loro. Occorre stare tra la gente per comprenderlo. Tre anni fa, la notte in cui è giunto in visita Pietro Parolin (cardinale e arcivescovo cattolico, dal 2013 segretario di Stato di Sua Santità) sono affogati tre ragazzi mentre tentavano di oltrepassare il fiume. Abbiamo ascoltato storie terribili, ma non credo che si ripeterà più un flusso simile, una calca di tale portata. Perlomeno finché l’Europa sgancerà soldi alla Turchia per una gestione violenta ma fittizia”. Tredici persone bivaccano attualmente a Gevgelija, meno di cinquanta a Tabanovce. All’ombra di un gazebo, scambio due parole con Slobodan, operatore della Croce Rossa. “Questo campo è mutato completamente rispetto a tre anni fa. C’è pochissima gente in transito e tra non molto prevedo che saremo costretti a chiudere. Siriani, iraniani, bengalesi, tutti o quasi vanno in Grecia o ci ritornano. A Salonicco o Atene è più facile rifornirsi di un documento falso e all’occorrenza percorrere la nuova via che si sta aprendo, quella attraverso Albania, Montenegro e Bosnia. Anche se offriamo brandine e cibo, chi passa di qua, ormai rimane massimo due giorni e se ne va. Il 90% di essi proviene comunque dall’Iran: alcune migliaia di cittadini iraniani, infatti, giunti in Serbia ufficialmente come turisti, probabilmente in seguito all’accordo fra i due Paesi sull’abolizione dell’obbligo del visto, arrivano nel Paese con l’intenzione di raggiungere l’Europa occidentale; non essendoci riusciti nel periodo di trenta giorni consentito dal permesso di soggiorno, si sono trasformati automaticamente in migranti. Tantissimi sono passati illegalmente di qua per accaparrarsi uno straccio di documento”. Il capannone in cui famiglie e uomini solitari si spintonavano è ridotto a uno scheletro arrugginito su cui batte il sole cieco.

Il Golfo Termaico avvinghia Salonicco con un abbraccio di baie e scogli. “Molti di noi puntano a raggiungere Atene. È la capitale e la vita in periferia costa poco ed è pieno zeppo di trafficanti, ingranaggi del sistema – racconta un testimone anonimo – I trafficanti lavorano a stretto contatto con gli hacker, che dentro al mercato nero virtuale agguantano passaporti falsi o lasciapassare. È più semplice mandare i vecchi in Europa: le guardie fanno meno domande quando c’è di mezzo un anziano. Qualcun altro si indebita e spedisce il proprio figlio (mediamente di cinque, otto o tredici anni) in Europa, presso una famiglia che, dietro pagamento, se lo accolla fintanto che il minore sia pronto a chiedere il ricongiungimento famigliare. Può andare alla lunga due mesi, a volte due anni, ma tanto attenderesti comunque. Chiedendo il ricongiungimento puoi sperare che la procedura di evasione sia più breve. È comunque una certezza, anche qualora l’intervista con la Commissione andasse male. Un’altra opzione, che è diventato anche l’unico modo per fuggire legalmente dalle isole di Samos, Chios o Lesbo, è ottenere lo status di vulnerabilità. È diventata una follia generale. Nei campi ormai parlano tutti di questo. Prima di interfacciarti con la Commissione devi però dimostrare di essere psicologicamente instabile, incline al suicidio o incinta. Ovviamente, anche qui, dilaga la corruzione. Se hai soldi sufficienti puoi sempre pagare un medico esterno che ti certifichi problemi mentali… A quel punto, almeno la restrizione geografica è superata; ti imbarcano su qualche nave e vieni assegnato a un campo in terraferma. Il paradosso è che in realtà non c’è nulla da inventarsi: dopo un paio di settimane in un campo come Moria, pazzo lo diventi davvero. Mi sono imbarcato per Lesbo un anno fa. 45 persone a bordo, 17 vittime tra morti e dispersi. Per rimanere a galla mi sono attaccato al salvagente di un amico. L’isola e l’inverno rigido hanno poi mietuto ulteriori vittime”. Un paio di video girati dall’uomo tramite il suo cellulare mostrano una distesa bianca di tende congelate, bambini intirizziti, quadri elettrici saltati, tubature pietrificate dal gelo. “Eravamo 5.5000 migranti irregolari a Moria. Se non possiamo andare in Europa fateci almeno tornare indietro. A casa potremmo morire per via delle bombe, qui moriamo di passività”. Nel frattempo, la crisi greca rivela un substrato civile che scava nella spazzatura, ditte edilizie latitanti, infrastrutture incompiute trasformate in rifugi notturni da centinaia di mani clandestine.

Barba folta, occhi verdognoli, premi culinari vinti in mezza Europa: è il profilo di Ehran, cuoco Michelin di origini curde, trentasei anni passati in Turchia a gestire un ristorante di lusso nel quartiere storico di Sultanahmet, a Istanbul. “Le recensioni su Trip Advisor erano ottime, il flusso turistico non diminuiva, i viaggi in Italia, Francia e Svezia erano a cadenza annuale. Eppure, dopo le elezioni, i signori di Erdogan sono venuti a cercarmi. Oltre a cucinare scrivo, e ciò che scrivevo era scomodo per il regime. Mi hanno offerto 20.000 euro per il ristorante a patto che lasciassi subito la Turchia. Si sono tenuti il mio nome, il mio ristorante famoso, costringendomi alla fuga. Non mi capacito di come possa essere accaduto: avevo una bella casa, un bellissimo lavoro, adesso dormo nei parchi, prendo pillole per tenere a freno l’ansia. Un avvocato mi sta dando una mano e, forse, molto presto otterrò un misero permesso di soggiorno per rimanere tre anni qui in GreciaTira una brutta aria in Turchia. Migliaia di persone vengono arrestate e sbattute in galera senza processo: intellettuali, politici, medici… e cuochi”. Mi aggrego ai volontari dell’associazione Stay Human, fondata nel 2016 da Musli Alievski. Le litanie del flauto ci conducono in uno dei campi peggiori di tutta la Grecia, quello di Vagiochori, situato lungo una tangenziale secondaria che collega Salonicco a KavalaElementi essenziali contraddistinguono questo campo di transito, spalmato su un pianoro rovente a un paio di chilometri dal primo paesino abitato (dieci casette in mattoni che sporgono sul lago Volvi): insetti ronzanti, tende bianche dell’UNCHR, l’ufficio dell’IOM sbarrato da una panca in metallo. I vigilanti e il dottore si trastullano dentro gli uffici, l’elica del condizionatore fisso spara all’esterno scrosci d’aria bollente. Un bidoncino dell’olio tagliato a metà, imboccato di pigne, rami secchi e manciate d’aghi silvestri, funge da fornello. La madre di Hassan, 27 anni, mette a bollire una spanna di caffè. “In questo campo tutto va male. Per avere un flacone di shampoo ho dovuto aspettare venti giorni. Non ci sono supermercati nelle vicinanze, l’UNHCR non si è mai visto. Le tende plasticate sono infiammabili, è già successo che un falò mal gestito bruciasse i ripari. Mi sono appoggiato in diversi campi della zona: Schisto, Kavalari, Diavata. Nel campo di Alexandreia, un mese fa, è morto mio figlio. È nato prematuro e le condizioni del campo lo hanno debilitato; si è preso una infezione alla pelle ed è stato traportato di corsa all’ospedale, in preda a febbre alta e convulsioni. Da allora non credo più a nessuna organizzazione umanitaria”. I curdi che incontro, quasi tutti originari di Afrin, scappano dalle bombe turche, cominciate a piovere in primavera. Baran, 23 anni, elogia l’YPG (Unità di Protezione Popolare) e demonizza russi, turchi, americani, Peshmerga. “La città di Afrin, in marzo, era circondata dalle truppe di Ankara; restava aperto un solo corridoio umanitario. Ci siamo imbottigliati dentro quel corridoio in 150.000, tutti civili. Per raggiungere Vagiochori abbiamo oltrepassato il fiume Evros, tra Bulgaria e Turchia, nelle cui acque centinaia di uomini e donne sono morti affogati. Già il 20 gennaio 2018 le Forze armate turche hanno iniziato un’operazione militare nel cantone a maggioranza curda di Afrin, dando alla manovra il nome in codice Ramoscello d’UlivoLe forze turche, oltre ad avere come obiettivi il Partito dell’Unione Democratica, lo YPG e le forze democratiche siriane, sostenevano di voler combattere contro l’ISIS, seppur le milizie nere non erano presenti nella regione. Le nostre case sono diventate pezzi di puzzle per le strategie geopolitiche dell’Occidente. La Turchia dice che noi curdi siamo tutti terroristi, ma allunga la tua mano e guardati le dita. Ognuna è diversa dalle altre no? Come puoi dire che tutti i membri di un popolo sono uguali? Come possono dire che siamo tutti terroristi e dunque bombardarci?”. Due sorelline piagnucolano e si sporcano i piedi nella terra rossiccia: sono le figlie di Mohamid, 33 anni, e Lavin, 21, che le sorridono da sotto i pini. “Tempo fa ho stretto amicizia con una famiglia georgiana. Mi hanno regalato dei vestiti, abitano due stradine dietro il campo. Mia moglie è bravissima a cucinare; la sua specialità è il Parda Pilaf, un piatto tipico della cucina curda, composto da riso, verdure e pollo. Dove potrebbe cucinare qui? Non abbiamo nulla, solo la noia delle giornate tutte uguali. Nel campo tutti abbiamo mal di denti, infezioni, diarrea, gastroenterite, ma i medici passano raramente e se non fosse per le dottoresse di qualche associazione umanitaria ci ammaleremmo seriamente. Dicono che il campo di Vagiochori verrà chiuso in ottobre…”. Solo nel momento in cui Mohamid si alza in piedi notiamo l’andatura claudicante e la stampella come sostegno. Un po’ a gesti e soprattutto grazie a Google Traduttore racconta di aver ricevuto, tra femore e anca, tre colpi di pistola dal fratello. “La mia famiglia, fondamentalista fino all’osso, imponeva a Lavin di indossare il velo, mentre io ero contrario. Dopo l’incidente, abbiamo deciso di scappare e, proprio lo stesso giorno, mio suocero, un ufficiale Peshmerga, ha perso la vita: un kamikaze dell’ISIS si è schiantato contro la sua postazione. Portandoci dentro questo dolore, come possiamo sopravvivere?”. Brancichiamo dentro un orologio di arena fatto di canalini puzzolenti. Buste della spesa si infrangono contro le reti appuntite del perimetro, rimanendo impigliate nei fili spinati mai fuorimoda. Fanno parte del paesaggio, come le lamentele, come l’erba bruciata. 

Saccopelisti, lattine di coca-cola, vespe, zingari, barboni, datteri, tossicodipendenti, piazza dei piccioni, spaccio, materassi, turismo sessuale, Open Moria CampPatrasso è uno dei grandi snodi dei migranti in cammino, è il porto verso cui tutto converge. È una città popolata di clandestini e rifugiati, in attesa del grande salto, ossia di salire su qualche camion in procinto di imbarcarsi sui traghetti diretti in Europa. Decine di migliaia di persone vivono accalcate ai bordi del porto, abitando in fabbriche o concessionarie d’auto abbandonate, lastre di eternit, muraglie di cartoni. Tutti fremono, tutti si tramandano i racconti di chi c’è riuscito. Tutti capiscono senza l’ausilio di paroleDalle scritte arabiche impresse sui fumaioli alle navi in partenza corrono meno di trecento metri. In mezzo, due corsie asfaltate, una cancellata metallica, un reticolato da superare. Da un cespuglio sgattaiolano tre sagome ingobbite, superano la strada rapidamente per appiattirsi al muro di cinta. Non hanno zaini né borselli, solo una canottiera e un paio di sandali rinsaldati con filo di ferro e spago. Tutti e tre si affrettano a mascherare la paura, cercando di respirare in coro, a mo’ di liturgia. Il primo, intuendo il motivo del mio approccio goffo, sventola una motivazione più che valida: “Non posso parlare ora! Ho molto da fare, provo ad andare in Francia” dice, prima di scavalcare la transenna e correre a perdifiato verso la banchina. Il secondo, sudato fradicio, si mangia le unghie e aspetta, aspetta, aspetta finché il primo viene braccato, malmenato, spinto fuori dalla fortezza portuale. Ritorna con la coda tra le gambe, infilandosi dentro un portone rosso, aperto sotto la scritta solidariety with all refugees in GreeceIl terzo compagno desiste. Si chiama Ahmed e non è mai riuscito a superare l’imbuto greco. Non è servito nemmeno affinare la tecnica di lancio. “Fino a poco tempo fa chiunque riusciva a saltare su un traghetto e arrivare senza pagare in Italia. Adesso è impossibile, non solo per i controlli capillari della Polizia. Anche se ti nascondi sotto a un camion devi pagare comunque una cifra e spesso sono i conducenti stessi a esigerla. Prima di partire non calcoli quanto potrebbe costare il viaggio, ma i soldi sono importanti. Ho speso almeno 10.000 euro per venire in Europa dall’Afghanistan” racconta Ahmed, mentre la Sorveglianza punta pile e faretti nei bauli del camion, allineati per la rotta Brindisi e AnconaLa marmaglia giovanile rimane appollaiata nel cordone del tetto. Indicano, gesticolano, imprecano. Attendono, in fila indiana, la partenza del traghetto serale.

Le foto dalla Grecia sono di M. Canapini ®

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