di Gianni Beretta
Padre Gustavo Gutierrez ci ha lasciati a Lima martedì scorso all’età di 96 anni. Della congregazione dei dominicani è letteralmente il coniatore della Teología de la Liberación. Un’intellettuale a tutto tondo che aveva studiato medicina e filosofia in Perù, e psicologia e filosofia a Lovanio in Belgio.
Sobrio, discreto, quanto forte e determinato, l’avevamo conosciuto in Nicaragua al Centro Ecumenico Antonio Valdivieso (un vescovo ucciso laggiù nel ‘500 dagli stessi conquistadores perché difendeva gli autoctoni) nei primissimi anni della Rivoluzione Popolare Sandinista. L’ultima della storia moderna: aperta, plurale, ispirata all’antimperialismo più che al marxismo; così come in quella teologia della liberazione incentrata sulla “opción preferencial para los pobres”. A tal punto che ci furono ben quattro preti/ministri nel governo rivoluzionario. In qualche modo tollerati dalla allora ostpolitik del segretario di stato vaticano Agostino Casaroli; interpretata sul posto dall’apertissimo nunzio Andrea Cordero Lanza di Montezemolo.
Fino a che papa Wojtyla non giunse a Managua quel fatidico 4 marzo 1983, strapazzando appena sceso dall’aereo (eravamo lì) il ministro della cultura padre Ernesto Cardenal che gli si era inginocchiato di fronte. Per poi essere clamorosamente contestato dai fedeli nella Plaza 19 de Julio mentre celebrava la messa. Al suo ritorno a Roma Giovanni Paolo II dispose l’immediata sospensione a divinis dei quattro sacerdoti dell’esecutivo sandinista. E poco dopo elevò a cardinale l’oppositore interno numero uno: l’arcivescovo metropolitano Miguel Obando y Bravo.
Mentre l’anno successivo il suo inquisitore, Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione della Fede, convocava presso la Santa Sede lo stesso Gustavo Gutierrez per mettere sotto processo le sue “azzardate” teorie; che pure mai aveva voluto si confondessero con la politica. Ma Gustavo, senza colpo ferire, non si presentò, forte della solidarietà subito manifestatagli dal mondo ecclesiale sudamericano.
Del resto il suo primo saggio sulla “Teologia della Liberazione” risaliva al lontano 1971. Non casualmente successivo alla II Conferenza dell’Episcopato dell’America Latina di Medellín (Colombia) del ’68, cui presenziò nientemeno che Paolo VI, che diede il via libera a quella tendenza d’avanguardia nell’applicazione del Concilio Vaticano II.
In ogni caso ci pensò il papa polacco, dopo il suo viaggio in Centro America, ad azzerare in pochi anni quella teologia in tutto il subcontinente; promuovendo via via presuli e porporati legati alla storica oligarchia coloniale. Come quelli che nel marzo 1980 legittimarono di fatto l’assassinio sull’altare dell’arcivescovo di San Salvador, mons. Oscar Arnulfo Romero. E la stessa uccisione dei sei gesuiti dell’Università Centroamericana nell’89 per mano dei militari durante la guerra civile.
In quel modo (e suo malgrado) ossessionato com’era dal “fantasma comunista”, Wojtyla spalancò così paradossalmente la strada alla diffusione delle sette fondamentaliste nel subcontinente più cattolico del pianeta; pianificata da Washington sin dagli anni ’70 e strutturata nel Documento di Santa Fe del 1980 (durante la presidenza di Ronald Reagan). Tanto che oggi quei predicatori disputano ai cattolici la storica “egemonia della fede” avuta nell’intera regione. Ma all’insegna (nei migliore dei casi) dell’antipolitica. Anche se ormai si stanno strutturando al fianco delle destre alla Bolsonaro.
Certo poteva essere comprensibile che il pontefice polacco, cresciuto in un paese sotto il giogo sovietico, cadesse nella trappola strumentale di coloro che sbandieravano l’ossessione dell’arrivo del comunismo in America Latina. Quando in realtà la rivoluzione messicana del 1910 e quella del ’44 dei giovani militari in Guatemala non si basavano su un’ideologia bensì sull’improrogabile necessità di una riforma agraria che rovesciasse lo storico schema “terratenientes versus peones”. Allo stesso modo del più recente nuovo corso cubano del ’59; dove però Fidel Castro, per niente comunista bensì iscritto al Partido Ortodoxo (antimperialista), per sopravvivere a sole 90 miglia dagli Usa fu costretto alla scelta di Mosca.
Ci volle la caduta del Muro di Berlino per far socchiudere appena gli occhi di Giovanni Paolo II sulla barbarie del sistema a libero mercato imperniato sul “dio denaro”. Ma nemmeno l’avvento di Bergoglio, primo papa venuto proprio da quell’”altra parte del mondo” è riuscito a rilanciare il Concilio Vaticano II; pressoché sepolto dal terzo papato più lungo in assoluto della storia (27 anni), seguiti dagli altri 7 del suo successore Benedetto XVI.
Non è bastato che papa Francesco si precipitasse a promuovere beato e santo mons. Romero; e insieme a lui Paolo VI che quel concilio concretizzò. Mentre alla canonizzazione di Wojtyla fece affiancare quella di Giovanni XIII che quel concilio, all’insegna degli “uomini di buona volontà” e della “de/piramidazione” della Chiesa, ispirò.
Da ultimo, neppure è bastato che nel settembre 2013, poco dopo essersi insediato sul soglio di Pietro, concelebrasse una messa nella cappella della sua residenza in Santa Marta con lo stesso padre Gustavo Gutierrez; che ben aveva conosciuto per venire dal medesimo subcontinente.
Il commiato del padre fondatore della Teologia della Liberazione è stato presieduto solennemente dall’arcivescovo di Lima nella Basilica del Santo Rosario.
In copertina: Padre Gutierrez