di Giuliano Battiston ed Emanuele Giordana
In Afghanistan la campagna elettorale per le presidenziali di fine settembre è cominciata nel peggiore dei modi: almeno 30 persone uccise. Mentre Unama, l’agenzia delle Nazioni Unite in Afghanistan, certifica che nei primi 6 mesi del 2019 le forze pro-governative (nazionali e internazionali) hanno ucciso più civili di quelle anti-governative, Talebani e Daesh. E Mike Pompeo, il segretario di Stato Usa, annuncia che il ritiro delle truppe americane dovrà avvenire entro il novembre del 2020, secondo le indicazioni del presidente Trump.
“Nei primi sei mesi del 2019 – si legge nell’ultimo rapporto di Unama – il conflitto ha continuato a uccidere e mutilare migliaia di civili, allontanando le famiglie dalle loro case e colpendo servizi essenziali tra cui istruzione e sanità”. Dal 1° gennaio al 30 giugno 2019, Unama ha documentato 3.812 vittime civili (1.366 morti e 2.446 feriti), registrando una diminuzione del 27% rispetto allo stesso periodo nel 2018 e il totale più basso del primo semestre dal 2012: magra consolazione in parte legata forse all’avvio dei negoziati. I Talebani rivendicano una riduzione delle vittime a loro attribuite grazie a precauzioni prese per proteggere i civili, mentre le forze legate al governo (tra cui gruppi paramilitari di autodifesa) sostengono che la riduzione delle vittime attribuite agli antigovernativi è dovuta alle misure efficaci adottate per contrastarne gli attacchi. Le vittime civili di raid aerei sono però aumentate e se nel bilancio attribuito agli antigovernativi si registra una diminuzione del 43%, quello attribuito ai governativi vede un aumento del 31%. Una guerra che si combatte dunque anche con numeri, percentuali e la rivendicazione di essere più umani nell’uccidere. I conti del Watson Institute della Brown University dicono intanto che il costo umano della guerra tra ottobre 2001 e ottobre 2018 era già, tra Pakistan e Afghanistan, di oltre 210mila morti.
Questa e le altre due notizie riflettono la complessità della fase politica e militare del Paese centro-asiatico. Dove lunedì è cominciata la campagna elettorale con cui il presidente Ashraf Ghani – a capo di un governo di unità nazionale voluto nel settembre 2014 dall’allora segretario di Stato Usa John Kerry – cerca il secondo mandato. A contendersi la poltrona dell’Arg, il palazzo presidenziale, c’è anche l’antagonista di Ghani, Abdullah Abdullah, oggi quasi “primo ministro”, e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar. Nei mesi scorsi i toni tra i candidati sono stati spesso ostili. Eppure ieri sia Abdullah sia Atmar si sono fatti fotografare nella residenza privata di Amrullah Saleh, ex capo dell’Nds, i servizi segreti, e candidato vice-presidente nel ticket elettorale di Ghani.
Fiero oppositore dei Talebani e voce critica nei confronti dell’establishment militare pachistano (accusato di complicità con i Talebani), Saleh è rimasto illeso per miracolo nell’attentato contro la sede del suo ufficio politico a Kabul. Prima un’autobomba, poi una battaglia durata 7 ore. Dopo 50 minuti Saleh è stato portato in salvo dalle guardie del corpo, ma circa 30 persone tra collaboratori e visitatori sono morti.
Oltre che all’inizio della campagna elettorale, l’attentato arriva nel mezzo del negoziato tra i Talebani e l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, che è di nuovo a Kabul. L’obiettivo è portare a casa entro l’1 settembre la firma dell’accordo di massima già raggiunto a Doha lo scorso gennaio. Riguarda 4 questioni: ritiro delle truppe straniere, assicurazione dei Talebani che il Paese non tornerà un santuario dei jihadisti, dialogo intra-afghano (che il governo di Kabul annuncia imminente, mentre i Talebani frenano) e un cessate il fuoco. Lunedì il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha detto che il presidente Trump vuole ridurre le truppe di combattimento entro il novembre 2020, quando si terranno le presidenziali negli Stati Uniti. I Talebani puntano a tempi più brevi. Parte del lavoro di Khalilzad sta nel trovare un’intesa. Per ora, non c’è.