Ambiente: vittima e causa di conflitto

Il senso della Giornata internazionale per la prevenzione ambientale in guerra e durante violenze  armate

di Elia Gerola

Il 6 novembre è stata celebrata la giornata internazionale per la prevenzione dello sfruttamento ambientale in guerra e durante i conflitti armati: dalle devastazioni ed infestazioni radiologiche prodotte dalle detonazioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki, alle piogge acide del Kuwait, alla biodiversità minacciata nel parco nazionale Virunga nella foresta tropicale congolese, alla deforestazione provocata con l’agente arancio in Vietnam. Quelli elencati sono solo alcuni, tra i più famosi per altro, dei molteplici effetti negativi, duraturi ed in ultima istanza mortiferi che i conflitti armati stanno comportando per l’ambiente naturale. La guerra impatta infatti non soltanto sulle società e sull’economia, ma anche sull’intero ecosistema terrestre, minacciandone la biodiversità, alterandone la fragile ecologia e modificando l’equilibrio della biosfera.

La giornata venne proclamata il 5 novembre 2001 dall’Assemblea Generale dell’Onu con lo scopo di attirare annualmente l’attenzione su una delle molteplici ragioni che fanno comprendere come la guerra non convenga anche per i suoi effetti sull’ambiente naturale. Distruzione generalizzata, fonti d’acqua avvelenate, coltivazioni bruciate, foreste disboscate, suoli desertificati, salinizzati o acidificati, animali a rischio di estinzione, possono essere le conseguenze, esplicitamente o implicitamente provocate, delle tattiche di guerra adottate nei conflitti armati. Il risultato ultimo è che fenomeni negativi quali carestie, scarsità idriche, malattie e cambiamenti climatici, vengono rinforzati nella loro severità e accelerati nella loro evoluzione. La guerra ancora una volta sarebbe il catalizzatore fondamentale di tutto ciò.

L’ambiente però non è solo una vittima, ma anche una causa profonda dei conflitti. Secondo l’Unep, il programma Onu per l’ambiente, il 40% dei conflitti armati degli ultimi 60 anni sarebbero avvenuti proprio per cause ambientali, un dato quest’ultimo, che sarebbe solo destinato ad aumentare. La ragione è semplice, l’ambiente significa molte cose: innanzitutto possibilità di sopravvivenza, basti pensare alla necessità di potersi approvvigionare a fonti idriche pulite ed abbondanti d’acqua; ma anche sviluppo economico, insito nella possibilità di coltivare un campo, o accedere alle risorse naturali di un determinato territorio per sostenerne lo sviluppo industriale. Non va poi dimenticato che in un tempo di cambiamento climatico, di incipiente esaurimento delle risorse energetiche tradizionali e di produzione capitalistica di massa, aggiudicarsi il controllo di un bacino idrico, così come dei giacimenti di petrolio o gas rimasti, o riuscire a mettere le mani sulla gestione delle miniere di coltan, sono considerati da molti attori di diversa natura, siano essi governanti, terroristi o leader di bande armate, mosse strategiche, che servono a far sopravvivere o incrementare il proprio potere.

Come ben spiegato da Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli nel saggio Water Grabbing (2018), dal 1948 al 2017 gli incidenti politici legati al controllo delle risorse idriche precipitati in conflitti caldi sono stati ben 37. Ancora, nel testo edito da Emi editrice si spiega come la guerra siriana, con i suoi numerosi black-out e danni ad infrastrutture critiche abbia portato ad una situazione in cui ad oggi, più del 50% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, con conseguenze drammatiche dal punto di vista alimentare ed igienico-sanitario. Non solo, ma la stessa comparsa dell’ondata di violenze viene spiegata da alcuni come un effetto della lotta per l’accaparramento delle ultime risorse naturali disponibili nella regione. Desertificazione, carestie, esaurimento delle risorse petrolifere hanno infatti costretto migliaia di persone ad abbandonare le proprie terre natie e migrare, esacerbando situazioni di confitto strisciante tra comunità. Non solo: i conflitti sarebbero numericamente maggiori, ma anche qualitativamente più complessi e quindi più resistenti ai tentativi di pace. Si è infatti notato che i conflitti ambientali precipitati in violenze, tendono a riemergere più facilmente e a inasprirsi più di altri. Se l’ambiente è in gioco infatti, il ciclo del conflitto viene accelerato, le cause profonde della controversia acuite, e la possibilità di una pacificazione celere e nonviolenta ridotte drasticamente.

Quella della protezione ambientale, come sostenuto dall’Unep, deve di conseguenza essere una caratteristica essenziale delle operazioni di peacekeeping contemporanee. Un cattivo stato ambientale, così come un suo impoverimento o un peggioramento delle sue condizioni non fanno infatti altro che esacerbare la probabilità di contrasti e quindi che la situazione politico-sociale precipiti in un conflitto armato. Ecco quindi da dove deriva l’importanza e l’urgenza di iniziative quali l’Agenda 2030 e la risoluzione approvata nel 2010 dall’Assemblea Generale Onu con la quale l’accesso all’acqua è stati definito un diritto fondamentale per la vita. La promozione e l’implementazione di uno sviluppo non solo sostenibile, ma concertato e condiviso delle risorse naturali disponibili sono infatti essenziali per prevenire i conflitti e costruire la pace.

Darfur terra martoriata nella foto di copertina è tratta dal sito di Unep

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