di Alice Pistolesi
Dalla Toscana al Gambia alla ricerca delle prove per ottenere l’asilo politico. La storia che ha spinto me e quattro amici a partire intreccia opposizione a un regime, squilibri nel sistema accoglienza e amicizia.
Tutti questi elementi descrivono gli ultimi anni di vita di Mohamed K. (il nome usato, per tutela, è di fantasia), ventottenne, richiedente asilo.
In Gambia Mohamed è stato parte attiva nell’opposizione giovanile dell’Udp, il partito che da anni porta avanti una silenziosa ma serrata battaglia contro il regime dittatoriale di Yahya Jammeh.
Dopo anni di viaggio Mohamed ha raggiunto l’Italia, dove è rimasto coinvolto in uno dei recenti scandali accoglienza. A settembre 2015 è stato allontanato dalla struttura nella quale era ospitato per aver protestato contro il trattamento che l’ente gestore riservava ai richiedenti asilo. Quell’ente che è oggi indagato dalla procura per illeciti nella gestione dei fondi.
Intorno a lui e ad altri nella stessa condizione è nata una rete informale di aiuto che gli ha impedito di divenire un senza tetto in attesa della commissione che deve stabilire se è degno di asilo. Il primo grado Mohamed lo ha perso, non è stata riconosciuta la sua affiliazione all’Udp, non è stato quindi giudicato per lui pericoloso tornare nel proprio paese.
Per i gambiani non è una novità non ottenere l’asilo. Nel 2015 i richiedenti in Italia superavano gli 8500 (oltre 6mila gli arrivi, invece, nel 2016) e le percentuali di concessione dello status sono bassissime. Nei primi due mesi del 2015 solo il 7% lo aveva ottenuto.
Ma dal Gambia si continua a fuggire. Il dittatore ha nominato nel mese di gennaio il paese Repubblica Islamica del Gambia. Da questa definizione non deriva la costrizione che si aspetterebbe perché il modo per violare i diritti umani Jammeh lo ha trovato in altre vie. Arresti arbitrari, sparizioni di personaggi scomodi e torture, sono all’ordine del giorno. Il suo regime può essere considerato uno dei più oppressivi al mondo. Negli anni si sono susseguiti svariati tentativi di golpe, sempre repressi nel sangue.
Il nostro viaggio-missione ci ha portati a Sukuta, città a sud di Banjul. Qui tramite la moglie di Mohamed, Fatima, siamo riusciti a ottenere la sua tessera di iscrizione al partito e la dichiarazione di quanto Mohamed aveva sempre raccontato, scritta da uno degli esponenti dell’Udp. Nella lettera sta infatti il motivo della fuga, il racconto di quella manifestazione del novembre 2011 durante la quale perse il portafoglio, di quando la polizia venne a cercarlo a casa e non lo trovò solo perché la moglie lo aveva chiamato per avvertirlo di non tornare.
L’incontro con Fatima fa vedere il problema dagli occhi di chi resta. Dopo la partenza di Mohamed anche per lei è iniziata una nuova vita. “All’inizio ha prevalso la paura – racconta – Se loro (la polizia gambiana ndr) ti cercano, prima o poi ti trovano perché se individuano un membro della famiglia arriveranno anche a te. Dopo che mi sono trasferita non è più venuto nessuno a cercarmi. Spero si siano dimenticati di Mohamed e quindi anche di me”.
Adesso gli avvocati stanno preparando il ricorso con noi come testimoni. Le prove ottenute potrebbero essere determinanti per ottenere l’agognato asilo. In quel caso la speranza di Fatima sarebbe quella di raggiungere il marito in Italia.