di Alice Pistolesi
In tempi di equilibri più che instabili e di conflitti diffusi e in espansione viene spontaneo riflettere sul ruolo delle Nazioni Unite. Sulle funzioni che dovrebbero avere e su quelle che effettivamente esercitano. Ne abbiamo parlato con Giovanni Camilleri, docente del modulo Onu Agenda 2030 del Corso di Diritti Umani e delle Religioni della Facoltà dell’Insubria, che è stato funzionario, per venticinque anni, in varie agenzie specializzate delle Nazioni Unite, in particolare l’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo).
Partiamo con la missione Onu Unifil, che ha mostrato in queste ultime fasi del conflitto tra Israele e Hezbollah tutte le sue limitazioni. Perché la missione di interposizione non ha potuto fare di più durante l’invasione dell’esercito israeliano in Libano?
Le regole di ingaggio della missione Unifil, non prevedono un intervento militare diretto del contingente. Il loro compito sta nel monitoraggio ed assistenza alla popolazione civile. Per questo realizzano rapporti che evidenziano come si muovono le parti belligeranti, chi sta rispettando gli accordi e chi non lo fa. La questione è a monte e rimonta all’atto della creazione stessa delle Nazioni Unite nel 1946 quando si decise di non dotare questo nuovo organismo multilaterale di un esercito come normalmente viene inteso ma piuttosto di prevedere contingenti integrati da militari di diversi paesi con funzione di osservatori e di interposizione, secondo i casi, espressione appunto di specifiche regole di ingaggio diverse da missione a missione. In questo senso, quindi, non possiamo dire che la missione non funziona, ma semplicemente che fa quello che le è concesso fare.
Da un altro punto di vista, poi, non si può pensare che un contingente di poche migliaia di soldati possa fermare due eserciti che decidono di farsi la guerra. Quello che possono fare è però fondamentale: essere la presenza della comunità internazionale sul campo per documentare e riferire alla componente politica delle Nazioni Unite quello che realmente accade fornendo informazioni verificate e neutrali. Per questo il peso della missione non sta nella loro capacità militare ma è funzione di quanto l’Assemblea Generale, e quindi i paesi che la integrano, ed il Consiglio di Sicurezza decidano in base alla documentazione prodotta dalla missione.
E nel caso di attacco militare verso la missione, come si è verificato in questi giorni contro le basi di Unifil i caschi blu cosa possono fare? Come giudica questo atto del governo israeliano?
Questo attacco militare, che è stato condannato in Europa da tutti i paesi e da tutti gli schieramenti politici, dimostra come e quanto la presenza delle Nazioni Unite possa rappresentare un forte ostacolo ed un deterrente per forze belligeranti intenzionate a non rispettare il diritto umanitario e le convenzioni internazionali. I caschi blu possono fare quello che stanno facendo e cioè mantenere, e caso mai, rafforzare la loro presenza. La risposta militare come già detto dipende dalle regole d’ingaggio ed è eventualmente prevista solo per difendersi da un attacco. La variazione delle regole d’ingaggio deve essere votata dal Consiglio di Sicurezza.
Questo atto ha pochi precedenza nella storia del post guerra. Una decisione sprezzante e violenta che vede nella guerra e nel non rispetto del diritto internazionale la soluzione ai conflitti ed alle dispute tra stati. Esattamente l’opposto dei principi che hanno dato vita alle Nazioni Unite. Un ulteriore argomento per rafforzare ed attualizzare l’Onu.
La scarsa volontà politica degli Stati verso l’Onu si riflette anche nella diminuzione degli investimenti per le missioni di peacekeeping?
La quota fissa annuale che gli stati stanziano per l’Onu serve per il suo funzionamento. Mentre i finanziamenti alle Nazioni Unite destinati ai programmi per lo sviluppo sostenibile, prevenzione e peacekeeping, riabilitazione post-conflict, arrivano da fondi “ad hoc”, stanziati dai cosiddetti paesi donatori. Questi ultimi effettivamente sono in diminuzione da anni. Infatti quando i paesi donatori vivono difficoltà economiche e hanno necessità di tagliare le spese decidono di solito di tagliare in primis sui fondi destinati allo cooperazione allo sviluppo e alle missioni internazionali, anche perché si tratta di priorità meno sentite dalla propria cittadinanza.
Tra i pochi fondi che continuano ed essere stanziati prevalgono comunque quelli collegati alle specifiche emergenze belliche e non. Ma questa dinamica crea una contraddizione perché la fase in cui ci troviamo, definita da molti, come ‘policrisi’ (crisi climatica-ambientale, energetica, quella legata ai movimenti massivi di popolazione, conflitti diffusi, sociale) richiederebbe disponibilità di fondi per operare non solo sugli effetti delle specifiche crisi ma anche sulle cause che le generano.
Si può dire, però, che alla base di tutto il ragionamento c’è la necessità di riformare l’impianto delle stesse Nazioni Unite? Ci sono secondo lei segnali di volontà in questo senso?
Indubbiamente la riforma è necessaria per non dire improrogabile. Dal 1946 il Mondo è talmente cambiato che è ovvio che si debba modificare anche struttura, logiche, equilibri e strategie di questa organizzazione multilaterale nata dopo la seconda guerra mondiale. Di questo ne sono coscienti tutti. Ed appunto uno dei nodi più importanti e più complessi è proprio la riforma del Consiglio di Sicurezza che, non dimentichiamo, ha potere di veto sulle risoluzioni votate dai paesi rappresentati all’Assemblea Generale . L’immobilismo sulla riforma è dovuto a tanti fattori. Prima di tutto la difficolta di trovare un accordo tra tutti gli stati ma anche i frequenti (e legittimi) cambi di governo dovuti alle elezioni nei vari paesi. Aggiungerei un dubbio: si è certi che oggi le superpotenze accettino ancora di buon grado l’esistenza un governo sovranazionale mondiale?
Oltre alla riforma sulla struttura e modalità di funzionamento dell’ONU serve anche operare ad una comune strategie di azione. Per questo il Segretario Generale Antonio Guterres ha recentemente proposto di centrare l’azione su sei tematiche specifiche, in modo da concentrare lo sforzo intrapreso per il raggiungimento dei 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile proposti nell’Agenda 2030 e non disperdere risorse ed energie.