Australia Day: una storia raccontata dai bianchi

La festa nazionale australiana è da anni al centro di polemiche e profonde riflessioni sul senso di appartenenza a una nazione che nasconde il suo passato di occupazione e segregazione

Di Lucia Frigo

La festa nazionale australiana cade al culmine dell’estate: il 26 Gennaio è il giorno perfetto per festeggiare, a Sydney e in tutto il Paese, con barbecue, celebrazioni sulla spiaggia e spettacoli di fuochi artificiali.  Allora, perché solo nel 2019 più di ottantamila persone sono scese nelle strade a protestare contro il “giorno dell’invasione?”

Perché l’Australia Day, a lungo considerata l’occasione per festeggiare “il progresso e la prosperità” simboleggiata dall’Australia, porta con sé una storia di repressione e di emarginazione, che il Paese fatica ancora ad accettare.

Il 26 Gennaio rappresenta, storicamente, il giorno in cui nel 1787 la “Prima Flotta” guidata dall’ammiraglio Arthur Phillip (poi diventato governatore del New South Wales), giunse a quella che oggi si chiama baia di Sydney e rese l’Australia colonia del grande impero britannico. Una data simbolica, uguale per tutti i vari Stati federali che compongono il Paese; indirettamente richiama l’appartenenza australiana al Commonwealth, e il legame ancora esistente con la corona britannica.

La narrazione comune per questo giorno – e diffusa poi nei libri di storia e nel pensiero collettivo – è quella di un popolo australiano composto da “boat people”, persone arrivate via nave dalle più diverse parti del mondo, per vivere serenamente e in pace nella nuova terra assegnata loro. Un’identità nazionale che rimanda agli avventurieri, a chi fuggiva dalle persecuzioni, ai galeotti spediti dall’altra parte del mondo, e che celebra la loro capacità di iniziare da zero, di costruire una grande nazione senza dimenticare di essere un popolo di emigrati.

Ma c’è anche una parte della società civile che non vuole dimenticare che l’Australia non era, nel 1787 né negli anni successivi, una terra disabitata che aspettava i colonizzatori occidentali. La popolazione aborigena è stata a lungo cancellata e tralasciata dalla narrativa collettiva, ma sono in molti ad insorgere contro i festeggiamenti di quello che viene chiamato l’ “Invasion Day”, il giorno in cui i colonizzatori invasero l’Australia ed iniziarono i soprusi sulle tantissime, diverse e ricche popolazioni originarie.  

Un giorno di lutto, quindi, per la cultura aborigena che da quel momento sarebbe stata cancellata e segregata: un giorno che evidenzia le contraddizioni di un Paese che da 200 anni evita di risolvere i secolari problemi tra la “nuova Australia” – quella bianca, degli Europei e della “boat people” – e l’Australia originaria, indigena – l’Australia nera dalla cultura ricchissima che ora è ridotta a folklore.

La storia degli aborigeni australiani ha molto in comune con la storia dei Nativi Americani, o di tutte quelle popolazioni originarie spazzate via da secoli di colonizzazione ostile: la segregazione nelle riserve desertiche delle regioni centrali dell’Australia; il rifiuto di riconoscere lingue, tradizioni, religioni e festività; il massacro iniziale per la conquista della terra.

Ma mentre altrove la corona britannica stringeva accordi con i leader locali per l’occupazione della loro terra (come il Waitangi Treaty con i maori) nel caso degli Aborigeni australiani non vi è mai stato un momento di dialogo: la Storia australiana di cui si festeggia il compleanno oggi è nata come storia di oppressione.

Inevitabili le conseguenze nel tessuto sociale: in primis, la povertà estrema, dovuta a barriere sociali e soffitti di cristallo nel mondo del lavoro; la scarsissima rappresentazione politica, il difficile accesso al lavoro, e quindi all’educazione per i figli: è altissimo infatti il tasso di abbandono scolastico rispetto agli “australiani bianchi”.

Alle barriere fisiche e reali si sommano quelle invisibili della discriminazione e dei pregiudizi; le statistiche denunciano le enormi difficoltà degli aborigeni ad accedere al sistema sanitario, e all’assistenza per la salute mentale. Le popolazioni aborigene sono tendenzialmente più vulnerabili alle piaghe sociali della violenza domestica, delle dipendenze e del suicidio.

 

Recentemente, sembra che il sentimento collettivo nei confronti di questi temi stia cambiando. La prima, grande manifestazione si ebbe il 26 Gennaio del 1938: mentre a Sydney sfilava la grande parata per il 150esimo anniversario del Paese, un gruppo di uomini e donne aborigeni si riunì per protestare contro i festeggiamenti: l’”Aboriginal Progressive Association” chiedeva nuove leggi che riconoscessero agli aborigeni australiani una vera, piena cittadinanza, e uguaglianza rispetto agli altri cittadini.

Da quell’anno, le manifestazioni dell’Australia Day non si sono mai fermate: ogni anno in diverse città si organizzano marce silenziose, come stanno diventando silenziose quelle decine di lingue aborigene mai riconosciute ufficialmente. Grazie anche alle piattaforme internet e alle campagne sociali, la società civile australiana si sta dimostrando più recettiva nei confronti delle problematiche di una minoranza che, nel 2016, contava 798,400 persone – circa il 3,3% dei cittadini australiani.

Sui social circola da anni la petizione per cambiare la data per la festa nazionale: c’è chi chiede di poter festeggiare il proprio Paese in modo inclusivo e rispettoso, in un giorno che non divida la nazione tra lutto e vacanza. Nel 2016 la città di Fremantle (non lontano da Perth) aveva unilateralmente deciso di cambiare la giornata delle celebrazioni, ma era stata rimessa in riga dal Governo Federale, che ancora si dimostra inflessibile sull’argomento.

Il comportamento del governo australianocompletamente refrattario ai movimenti e alle riflessioni della società civile – in realtà non sorprende. Nessun governo ha ancora accolto il suggerimento di un trattato con la “Nazione aborigena”, anche solo simbolico. E del resto, le politiche di segregazione e di repressione non sono finite con le riserve degli aborigeni: le isole Nauru e Manus ospitano tuttora veri e propri campi di concentramento, dove vengono “ospitati” i migranti che arrivano via mare. (ve ne abbiamo parlato qui: https://www.atlanteguerre.it/australia-non-e-un-paese-per-bimbi/ e qui: https://www.atlanteguerre.it/migranti-la-verginita-perduta-dellaustralia/ ) Sono storie di famiglie separate e di trattamenti disumani, che continuano tutt’oggi lontano dagli occhi degli “Australiani perbene”. Proprio come con gli aborigeni: generazioni rubate, bambini tolti alle loro famiglie, segregazione razziale. E allora, di fronte a queste storie vecchie e nuove che si sovrappongono così bene, la festa del 26 Gennaio in cui si celebrano “il progresso e la prosperità” australiani ha tutto un altro sapore.

 

Con la collaborazione di Giorgia Stefani

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