di Giulia Ferraro, Agenzia per il Peacebuilding*
L’amministrazione Trump continua a sorprendere con gesti e dichiarazioni che hanno più il sapore di una sceneggiatura hollywoodiana che di una politica razionale. A inizio settembre, un ordine esecutivo del Presidente degli Stati Uniti intima a ri-nominare il Dipartimento della Difesa in Dipartimento della Guerra. Un salto nel passato, con concrete modifiche al sito web ufficiale (ora war.gov), ai canali social e persino al titolo di “Secretary of War” del titolare del dipartimento, Pete Hegseth.
La sensazione è che il linguaggio pubblico, invece di unire, divida. Prendiamo il lessico della guerra e della pace. Da mesi Trump si autoproclama “paladino della pace”, promettendo la fine del conflitto Russia-Ucraina in 24 ore e suggerendo di meritarsi il premio Nobel. Eppure la pace che rivendica non è quella sostenibile che nasce da compromessi e giustizia, che vuole durare nel tempo ed evitare ulteriore distruzione e sofferenza. La sua pace è uno slogan, una campagna mediatica. Un gioco linguistico rischioso che svuota completamente parole come “pace”, già sbandierata a caratteri cubitali bianchi su banner blu profondo come il cielo d’Alaska. E intanto, i conflitti reali – dall’Ucraina al Medio Oriente – continuano.
Eppure, il linguaggio politico ha un peso. Non è un caso che dopo il 1945 gli Stati Uniti abbiano scelto di rinominare il Department of War in Department of Defense, così come hanno fatto gran parte dei Paesi europei. Una scelta simbolica per marcare il passaggio dal tempo dell’aggressività a una nuova era di responsabilità. “Difesa” infatti significa protezione, prevenzione, estrema ratio; mentre “guerra” significa offesa, iniziativa, accettazione della violenza. Questi non sono dettagli semantici ma orientamenti politici e morali con conseguenze drammatiche e concrete sul mondo e sulle persone. Così “difesa” può significare indiscriminato attacco preventivo, “pace” può coincidere con rigida imposizione, “democrazia” può diventare sinonimo di obbedienza.
Parole cariche di storia e memoria vengono piegate, alleggerite e strumentalizzate fino a perdere di significato. È la celebrazione aperta della volontà di regredire, la prova di come manipolare e ridurre il linguaggio per orientare la percezione pubblica. Questa deriva non riguarda solo gli Stati Uniti ma attraversa l’intero dibattito globale. In vari angoli del mondo stiamo assistendo a una politica da serie tv che premia chi alza la voce, chi semplifica, chi confonde. Ma intanto a pagarne il prezzo siamo tutti noi perché senza un linguaggio comune, condiviso e affidabile, senza principi solidi che ci aiutano a vivere in modo pacifico con gli altri, rischiamo di perde la bussola. Babele. Una Babele moderna, dove non ci si capisce più non per eccesso di lingue, ma per la manipolazione del loro significato.
Non è nostalgia per un passato idealizzato, ma il richiamo al senso politico di una svolta che oggi rischia di essere cancellata. E l’urgenza di scegliere e votare per un presente che ci permetta di crescere pacificamente come società, comunità e individui. Se il linguaggio si riduce ad arma, se la parola “pace” diventa slogan, se “guerra” torna parola d’uso quotidiano, allora il terreno stesso della convivenza civile si sgretola. La vera sfida non è soltanto risolvere i conflitti ma prevenirli partendo proprio dalla difesa del significato di quelle parole che sono state scelte da chi ci ha preceduto e ha vissuto sulla propria pelle la tragedia della guerra.
Nella foto in copertina, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ©Shutterstock/noamgalai
* L’Agenzia per il Peacebuilding (AP) è un’organizzazione impegnata a colmare il divario tra ricerca e pratica nel peacebuilding. L’AP contribuisce alla costruzione della pace promuovendo società inclusive e giuste, attraverso la prevenzione e la trasformazione dei conflitti violenti e facilitando il dialogo e la cooperazione tra istituzioni, comunità e attori della società civile






