Centomila firme contro Ortega

Violenze quotidiane, centinaia di morti, migliaia di feriti, aggressioni di squadracce protette dalla polizia. L’incubo del Nicaragua e della sua involuzione autoritaria nelle mani della famiglia del presidente

In venti giorni sono state raccolte più di 100mila firme da organizzazioni della società civile per far applicare a Ortega la legge Magnitsky che, negli Usa, congela i beni di chi viola i diritti umani. E’ uno dei tentativi di opporsi al crescendo di violenze che si susseguono ormai da mesi in Nicaragua dove i paramilitari del governo di Daniel Ortega hanno da poco sgombrato con le armi gli studenti dall’università di Managua ammazzandone due e ferendone decine, poche ore dopo l’aggressione all’arcivescovo di Managua e al nunzio apostolico all’interno della Cattedrale di Diriamba. Solo ieri, almeno dieci persone sono state uccise dai paramilitari in diverse zone del Paese e nel pomeriggio è stata assalita l’auto su cui viaggiava il vescovo di Estelì Abelardo Mata. I morti tra chi protesta si contano ormai a centinaia, i feriti a migliaia. Decine i desaparecidos. La polizia organizza e protegge le squadracce filogovernative e la magistratura, controllata dall’esecutivo, non offre garanzie. In questo intervento Adalberto Belfiore disegna il profilo dell’ex comandante rivoluzionario e di quella che è ormai una brutale dittatura 

di Adalberto Belfiore*

Daniel Ortega, il vecchio rivoluzionario, si è tramutato in un dittatore assassino. Dal 19 aprile le sue squadracce hanno fatto centinaia di vittime, sparando con armi da guerra su manifestanti disarmati. A oggi il numero di assassinati ha superato i 350 secondo la Associazione nicaraguense per i diritti umani ANPDH e sono solo poco meno per la Commissione interamericana per i diritti umani CIDH. Più migliaia di feriti e svariate decine di desaparecidos. E ancora: atti di intimidazione, violenti pestaggi, detenzioni illegali, sequestri, carceri segrete, irruzioni in abitazioni e proprietà private organizzati da bande di “militanti sandinisti” che circolano pesantemente armati a volto coperto e su camionette con targhe anch’esse coperte, al di fuori della legge e protette dalla polizia. Senza che la comunità internazionale abbia fatto granché. Solo la selvaggia aggressione al cardinale Leopoldo Bremes, che con i suoi vescovi sta tentando con notevole coraggio di mediare tra società civile e governo, e addirittura al Nunzio apostolico Stanisaw Sommertag all’interno di una chiesa a Diriamba, hanno meritato qualche articolo sui giornali. E c’è addirittura chi a sinistra prova ancora a difendere il dittatore per nostalgia dei bei tempi in cui il Nicaragua sandinista, novello Davide, lottava per l’indipendenza e l’ingerenza statunitense e Ortega era il presidente della Giunta di ricostruzione nazionale, accettando la verità del tiranno che denuncia “manovre golpiste della destra” come in Venezuela.

Metodi mafiosi

Ma non è così, nessuna prova in tal senso è stata esibita in forma ufficiale o in altro modo verificabile. Che si tratti di una dittatura, seppure in forma peculiare, è invece fuori di ogni ragionevole dubbio. Come altro si potrebbe definire un regime in cui il partito di maggioranza relativa, Il FSLN (Fronte sandinista di liberazione nazionale) epurato con metodi mafiosi da ogni dissidenza, è diventato uno strumento rigidamente controllato dal Presidente, capo del Governo e delle Forze armate? Un uomo che, tornato al potere nel 2007 grazie a una legge elettorale disegnata ad hoc, frutto di un accordo parlamentare con l’estrema destra, controlla il 90% dell’Assemblea nazionale, e che ha messo in tutte le cariche dello Stato persone di sua assoluta fiducia perché complici del saccheggio istituzionalizzato (Corte suprema di Giustizia, presidenti di tribunale, giudici, Procura, Corte suprema elettorale, vertici di polizia ed esercito, ministeri e imprese pubbliche).

Tutto ciò che c’è di pubblico nel Paese è di Ortega e di sua moglie, la odiatissima e temutissima Rosario Murillo, nominata vicepresidente per preparare quella che si va configurando come una vera e propria successione dinastica. Mentre i figli controllano tutti i principali canali televisivi e quelli di opposizione vengono censurati quando non direttamente invasi e saccheggiati da bande paramilitari protette dalla polizia. Erano più di dieci anni che il sistema funzionava, a differenza del Venezuela, con il beneplacito e la partecipazione della grande impresa privata, degli investitori stranieri e degli stessi Stati Uniti. Finché Ortega garantiva la pace e il controllo sociale, a nessuno importava se i diritti sindacali non esistevano, se la tassazione sulle omprese era blanda, se Ortega e i suoi gerarchi si arricchivano illecitamente, se le clientele di partito erano foraggiate con le risorse della nazione e se ogni protesta, anche solo settoriale e limitata, veniva repressa a bastonate dagli sgherri della cosiddetta Gioventù sandinista, patroni assoluti delle piazze. Ma il giocatolo si è improvvisamente rotto.

L’inizio della protesta
I prodromi sono stati tre: la questione del Canale interoceanico per la realizzazione del quale Ortega con la legge 840 aveva concesso con deroga alla Costituzione, poteri sovrani a un’impresa cinese, compresi quello di espropriare terre e deportare popolazione. L’incendio della grande Riserva biologica del tropico umido Indio-Maíz che arse per sei giorni senza che il governo intervenisse (a tal proposito le organizzazioni ambientaliste, molto attive in Nicaragua, avevano denunciato inascoltate la collusione del governo con gli interessi degli allevatori che vogliono creare nuovi pascoli). E per ultimo appunto, il tentativo, rientrato dopo le proteste, di riformare il sistema delle pensioni, in bancarotta dopo un decennio di sprechi, malversazioni e arricchimenti dei gerarchi “sandinisti”.

Al tempo dei social l’immagine di un anziano diabetico, che protestava in strada assieme ad altri pochi pensionati, buttato a terra e preso a calci da energumeni filogovernativi ha fatto da detonatore a un malessere che covava da tempo, causando proteste di massa iniziate nelle università e via via estesesi a tutto il Paese e a tutti i ceti sociali, comprese le organizzazioni degli imprenditori che hanno fiutato il cambio in arrivo. Emblematica la sollevazione di luoghi storici della Rivoluzione sandinista: a Monimbò, a Subtiava, nei quartieri orientali della capitale Managua, nelle università sono state erette barricate a cui partecipa tutta la popolazione per proteggersi dalle incursioni delle squadracce e dei temuti e corrotti poliziotti antisommossa.
Per affrontare la situazione Ortega gioca cinicamente su due piani: da un lato finge di voler rispettare la Costituzione e accettare il dialogo con la società civile mediato dalla Chiesa cattolica, dall’altro spinge a fondo sulla repressione. Ormai a detta di tutti gli osservatori indipendenti l’ex guerrigliero ha superato il punto di non ritorno e gli rimane solo la carta della violenza e del terrore.

Ortega come Somoza

Il quadro è terribile per la popolazione del Nicaragua, Paese rimasto poverissimo malgrado i demagogici programmi sociali dell’orteghismo, ma pone interrogativi anche a tutta la sinistra latino americana. Come non bastasse un ex rivoluzionario divenuto dittatore, difeso colpevolmente solo da Cuba, dal Venezuela (col traffico del petrolio venezuelano Ortega si è arricchito smisuratamente, alla faccia di Sandino che mai ebbe o volle proprietà) e seppur con qualche distinguo dalla Bolivia di Evo Morales, a sinistra ci si rende conto di come gli Stati Uniti (che hanno revocato il visto e applicato la legge Magnitsky per congelarne i beni a tre alti gerarchi di Ortega in quanto violatori dei diritti umani) abbiano gioco facile ad ergersi ora a paladini della libertà e della democrazia. Lo possono fare dopo aver protetto le peggiori dittature e causato solo in Nicaragua più di 50.000 morti con l’appoggio al regime dei Somoza e poi alla guerra controrivoluzionaria negli anni Ottanta. Paradossalmente sono forse l’unico potere in grado di fermare il terrore genocida dell’ex rivoluzionario anti imperialista divenuto un dittatore più brutale di quell’Anastasio Somoza che aveva contribuito ad abbattere.

* già funzionario alla Presidenza della Regione Lombardia, è stato capo progetto e responsabile-paese di varie Ong di cooperazione internazionale in Nicaragua e in altri paesi di America Latina, Africa e Asia. Collaboratore dall’America Latina di Lettera22 per diversi anni è co-fondatore di una rivista milanese di giornalismo partecipativo.

Nell’immagine di copertina, le squadracce paramilitari in azione in uno scatto tratto dal quotidiano La Prensa che, tutti i giorni, documenta le violenze.

Sopra: la copertina di un romanzo di Belfiore ambientato durante la rivoluzione sandinista

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