Cinema e guerra. Il prezzo della libertà

“One More Jump” del regista Emanuele Gerosa racconta una squadra di Parkour: giovani di Gaza che imparano a saltare i muri.Per  superare le barriere imposte dal conflitto

di Elisa Dossi

Qual è il prezzo che sei disposto a pagare per inseguire la tua libertà? E’ la domanda di “One More Jump”, il film del regista roveretano Emanuele Gerosa. Racconta di una squadra di Parkour. Giovani della Striscia di Gaza che imparano a saltare muri. Con tutti il significato che può avere, là, superare le barriere. “Ragazzi che cercano di riappropriarsi del loro territorio e provare attimi di felicità praticando una disciplina pericolosa sulle rovine della loro città” spiega Gerosa. E pone la domanda successiva: “Può esistere la libertà per chi è nato in una prigione a cielo aperto?” Fondatore della squadra è Abdallah Inshasi. Fuggito in Europa, ora vive in Trentino. Nel documentario c’è la sua storia: “Questo sport spiega una parte della vita di noi palestinesi della Striscia. Saltare i muri, superare gli ostacoli è la nostra quotidianità” rivela.

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Nel film, i ragazzini che vengono addestrati a saltare. La guerra che per sopravvivenza psicologica diventa un gioco. Il conflitto con Israele, le immagini della Marcia del Ritorno, la protesta pacifica dei palestinesi, ripetutasi ogni venerdì al confine dal marzo 2018 al dicembre 2019, la risposta israeliana a suon di fumogeni e pallottole. Immagini dure, ma senza indugi. Nel documentario durano qualche istante. Eppure raccontano molto. “I palestinesi arrivano al confine disarmati. I soldati israeliani usano proiettili a frammentazione, proibiti, che si espandono nel bersaglio aumentando la gravità delle ferite – denuncia Gerosa –nella maggior parte dei casi a chi viene colpito si deve amputare un arto. Così oggi a Gaza c’è una schiera di invalidi, con tutti i costi e le difficoltà che ciò comporta”.

“One more jump” è molto altro. E’ la fuga di Abdallah in Europa, la rabbia del suo amico Jehad, sempre membro del Parkour Team, rimasto confinato nella Striscia col sogno di andarsene. L’impossibilità di avere cure e medicine, la povertà, la necessità di progettare il futuro che si scontra con una realtà che non lascia scampo. Jehad sognava partissero insieme e ad Abdallah, della sua fuga, fa una colpa. “Ma anche Abdallah si sente in colpa – racconta Gerosa – chi lascia la Striscia lo fa con un senso di colpa che lo accompagna per tutta la vita. La riuscita passa attraverso il tradimento: lasciare il proprio Paese, i propri cari in una situazione orrenda. Un dramma. Tant’è che i giovani prendono il visto e non dicono nulla. Chiamano a casa, per salutare, solo una volta giunti in Europa”.Abdallah non è in Europa a spassarsela. Il film lo racconta. Dorme in rifugi improvvisati, non riesce a trovare lavoro.

One More Jump ha vinto il Prix Europa come miglior documentario televisivo 2020. In Francia, al Festival internazionale di documentari mediterranei PriMed, ha ricevuto 3 premi. Al Kazan International Film Festival, il “Prize of the Russian Guild of Film Critics”. Al Trento Film Festival, il premio “CinemAMore”. Ma la soddisfazione più grande, racconta Emanuele Gerosa, è il rapporto stabilito con i protagonisti nei quattro anni di lavoro. “E’ stato fondamentale andare a vivere a Firenze nella casa abbandonata di Abdallah. Così come a Gaza in quella di Jehad. Stare con loro era necessario”.

Necessario per capire la quotidianità fuori dal grande schermo. “Chi se ne va da Gaza, sa che non tornerà più” spiega. Si esce solo dalla frontiera con l’Egitto. “Apre solo un paio di settimane l’anno. Dunque bisogna ottenere un visto i cui tempi coincidano con quelli dell’apertura della frontiera”. Per non parlare del ritorno. “Chi in Europa chieda l’asilo politico, di fatto l’unico modo per restare legalmente, non può rientrare. Per gli altri, occorre fare i conti con i sospetti di Hamas: il timore è che chi torna sia stato assoldato come spia israeliana”. Un brutto incidente, dopo un’esibizione per volontariato, costringe oggi Abdallah Inshasi in sedia a rotelle. “Sogno di rivedere i miei genitori, ma non sarà facile – confessa – Avere il visto per venire in Italia anche solo il tempo di un viaggio turistico è un terno al lotto. Non li vedo da sette anni e ora, dopo l’incidente, è il mio più grande desiderio”.

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