Nagorno-Karabakh

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Il cessate-il-fuoco del novembre 2020 ha nuovamente messo a sopire un conflitto in un’Area che non si è mai pacificata dal 1991, senza riuscire ancora una volta a gettare le basi per un processo di pace duratura. Comunque l’accordo per deporre le armi firmato dal Presidente azero Ilham Aliyev, dal primo Ministro armeno Nikol Pashinyan e dal Presidente russo Vladimir Putin è riuscito quantomeno a spegnere le fiamme della fase armata più violenta nella Regione negli ultimi venticinque anni. Quella che si è combattuta tra il 27 settembre e il 10 novembre 2020, infatti, sarà ricordata come la “seconda guerra del Nagorno-Karabakh”. Appena 44 giorni (iniziati con l’attacco azero sulla linea di contatto rimasta congelata dalla fine della prima guerra del Nagorno-Karabakh del 1994) che hanno nuovamente cambiato la geografia dell’Area, i rapporti di forza dei due Paesi antagonisti e causato migliaia di morti e sfollati. Sono state più di 7mila le vittime, tra cui oltre 200 civili, e circa 140mila gli sfollati da entrambe le parti. La fine della guerra ha capovolto lo scenario nella Regione, decretando la netta vittoria dell’Azerbaigian che ha riguadagnato il controllo dei sette distretti adiacenti al Nagorno- Karabakh, tra cui Shusha/Shushi, città strategica e polo culturale sia per gli azeri che per gli armeni. Circa mezzo milione di azeri sfollati da più di venticinque anni hanno avuto la possibilità di fare ritorno nelle proprie abitazioni, mentre circa 100mila armeni hanno dovuto abbandonare le proprie case.

Subito dopo la firma dell’Accordo trilaterale sul cessate-il-fuoco, Mosca ha dispiegato in Karabakh e nel corridoio di Lachin (unico collegamento rimasto tra Armenia e Nagorno-Karabakh) duemila militari con funzioni di peacekeeping e il compito di monitorare il rispetto della tregua. Il loro mandato iniziale è di cinque anni, con possibilità di rinnovo. In questo modo, la Russia è riuscita nuovamente ad assumere un ruolo geopolitico centrale nell’Area, manovra non riuscita alla Turchia, fedele (e determinante, con le forniture militari di droni) alleato di Baku durante la guerra. Ankara si limita finora a partecipare al monitoraggio della tregua dal centro di Aghdam, villaggio che si trova in uno dei distretti azeri precedentemente occupati e appena tornati sotto il controllo di Baku. Non sono mancate purtroppo violazioni del cessate-il-fuoco, le più violente delle quali si sono verificate nel mese di settembre 2022, con intensi scambi di artiglieria pesante e razzi da entrambe le parti lungo il confine.

Per cosa si combatte

Nel Nagorno-Karabakh si combatte per il controllo di un territorio piuttosto circoscritto, incastonato tra le montagne del Caucaso meridionale, non particolarmente ricco, ma collocato in una posizione strategica in una Regione sempre più centrale ai flussi di distribuzione energetica tra Europa e Asia. Le origini del conflitto tra armeni e azeri risalgono al periodo dell’implosione dell’Unione Sovietica, quando i confini interni dell’Urss che separavano le popolazioni nell’Area si tramutarono da un giorno all’altro in confini di Stati. La nascita nel 1991 delle Repubbliche indipendenti dell’Armenia e dell’Azerbaigian alimentò però solo uno scontro che era già esplosivo da quando, nel 1989, la maggioranza armena del Nagorno-Karabakh aveva avallato con un referendum la decisione del Parlamento di entrare nell’orbita armena. Le tensioni etniche culminarono nella prima guerra del Nagorno-Karabakh, combattuta tra 1991 e 1994, che causò più di 25mila vittime e centinaia di migliaia di sfollati. La fine dei combattimenti, avvenuta grazie al raggiungimento di cessate-il-fuoco firmato dalle due parti a Bishkek, in Kirghizistan, nel maggio del 1994, garantì una delicata tregua durata 26 anni. I leader de facto del Nagorno-Karabakh ne dichiararono l’indipendenza e le forze armene assunsero il controllo di sette distretti azeri attorno all’enclave. Le ostilità tra i due Stati non sono però mai definitivamente cessate, culminando nella guerra dei quattro giorni nel 2016 e nella seconda guerra del Nagorno-Karabakh nel 2020.

Quadro generale

Il Nagorno-Karabakh è un’exclave abitata da una maggioranza armena nel territorio dell’Azerbaigian. La questione etnica è alla base del conflitto irrisolto scoppiato nel 1991. Dal cessate-il-fuoco firmato a maggio 1994, le tensioni tra i due Paesi non sono mai effettivamente cessate. Lo status quo seguito al primo conflitto per il Nagorno-Karabakh giovava a Yerevan che ne era uscita vincitrice e controllava l’Area e sette distretti a essa adiacenti, ma era inimmaginabile per Baku che ne rivendicava il controllo. A niente sono serviti anni di negoziati mediati dal Gruppo di Minsk (organismo dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che dal 1994 ha avuto il mandato di favorire il raggiungimento di un accordo tra le parti. Le ostilità crescenti tra i due Stati sono culminate nella guerra dei quattro giorni dell’aprile 2016 (che causò circa 200 vittime), quindi in violenti scontri al confine tra i due Stati nel luglio 2020 (in cui le vittime furono 16) e infine in guerra vera e propria tra settembre e novembre 2020.

Secondo uno studio condotto dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri), monito della guerra imminente erano i dati relativi alle spese militari armene e azere del 2020: rispettivamente il 4,9% e il 5,9% dei Pil, circa tre punti percentuali superiori rispetto alla media mondiale. Un altro elemento che emerge dallo stesso studio è l’asimmetria dell’investimento militare dei due Stati. Dal 2011 al 2020 Baku ha investito circa otto volte più di Yerevan nelle spese militari, rifornendosi perlopiù da Russia (60%), Israele (30% circa), Bielorussia (7%) e Turchia (3%). Per contro, l’Armenia si è appoggiata soprattutto a Russia (90%) e Giordania (5%).

Nonostante Mosca sia uno dei tre membri permanenti del Gruppo di Minsk e sia legata a Yerevan dal Trattato di sicurezza collettiva (Csto), ha da sempre mantenuto una posizione equilibrista nel conflitto, risultando la maggior fornitrice di armamenti per entrambe le parti belligeranti. Ma, se da un lato, sottolinea lo stesso rapporto Sipri, la Russia rifornisce l’Armenia a prezzi ridotti o in forma d’aiuto militare perché i due Stati sono parte di una più ampia cooperazione militare, l’Azerbaigian paga solitamente a pieno prezzo le armi russe, configurandosi per Mosca come un partner a cui è difficile rinunciare. Così, mentre la Russia si è ritrovata a essere nuovamente al centro della scena caucasica e il Presidente azero Aliyev ha potuto giovarsi del supporto popolare a seguito della vittoria, l’Armenia si è trovata a dover affrontare una delle più gravi crisi politiche della sua storia. Il Governo di Pashinyan, al suo terzo incarico dal 2018, ha vacillato. Violente protese si sono ripetute nella capitale Yerevan chiedendo la caduta dell’Esecutivo, accusato di aver tradito il Paese firmando un cessate-il-fuoco che somiglierebbe più a una resa incondizionata. D’altro canto, la superiorità militare dimostrata dalle forze armate azere ha lasciato poco spazio alla leadership armena per poter sperare in un esito diverso della guerra, tale da poter avanzare pretese al tavolo delle trattative. In aggiunta, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e il massiccio impiego di forze militari ed economiche di Mosca, il primo Ministro armeno Pashinyan non può nemmeno più dare per scontato, nell’immediato futuro, l’appoggio garantito finora dall’alleato Putin.

Il nuovo equilibrio emerso dopo l’ultima tregua lascia in sospeso una serie di questioni, tra cui il futuro dei prigionieri di guerra armeni ancora nelle carceri azere, quello degli sfollati e la demarcazione dei nuovi confini nazionali. I due Paesi hanno rilasciato alcuni dei prigionieri nelle rispettive carceri, ma il numero di quelli ancora detenuti è sconosciuto. Nel marzo 2021, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto in cui denunciava abusi e torture di cui sarebbero vittime i prigionieri armeni in Azerbaigian. Il Parlamento Europeo si è pronunciato in favore di un immediato rilascio degli armeni, sia militari che civili, rinchiusi nelle prigioni azere dalla fine della guerra. Sul fronte degli sfollati, in molti hanno cominciato a fare ritorno alle loro case dopo il cessate-il-fuoco, ma a luglio 2021 l’Unhcr calcolava ancora 37mila sfollati in Armenia e 1.600 in Azerbaigian.