Congo: le strade della schiavitù
Testo e foto di Sara Cecchetti




Lubumbashi (capoluogo della provincia dell’Alto Katanga) è apparentemente più tranquilla di Kinshasa: le sue strade sterrate sono meno caotiche e i rumori dei clacson meno forti e insistenti. Eppure è da qui che si parte per percorrere le vie che conducono a una delle realtà più oscure della Repubblica Democratica del Congo: lo sfruttamento minerario. Che i cosiddetti diamanti di sangue siano assieme la più grande ricchezza e sfortuna del paese è risaputo; quello che si racconta di meno è la vita di chi- per cercare quei minerali- sacrifica intere giornate. E così è dalla capitale dell’Alto Katanga (anche centro amministrativo delle provincie minerarie) che cominciamo ad addentrarci in percorsi fatti di strade deserte e polvere rossastra per raccontare la vita dei minatori. Da Lubumbashi si devono percorrere 140 km in bus per raggiungere Lwambo, una delle città più ricche di miniere artigianali della zona. Perché, se molti dei grandi giacimenti minerari dell’Alto Katanga con l’ex presidente Joseph Kabila sono stati dati in appalto a società cinesi in cambio di infrastrutture, ci sono miniere più piccole nelle quali a scavare non sono i macchinari, ma persone a mani nude.


Dal centro di Lwambo per giungere alle miniere ci sono altri chilometri di strada sterrata da percorrere e così, durante il tragitto, a spezzare le distese di terra rossa è la fiumana di persone (tra cui anche molti bambini) con sacchi pieni sulle spalle e pale nelle mani. La sensazione è che quel percorso sperduto nel nulla sia tracciato dalla forza di un commercio illegale che vede coinvolte migliaia di persone. Uno di questo è Jean, un ragazzo di vent’anni, che assieme ad altri due coetanei incontriamo una volta arrivati alla miniera di Rwenzo. Qui si scava alla ricerca del rame e Jean, che in questo luogo trascorre le sue intere giornate, ci spiega che è necessario raggiungere sei/sette metri per sperare di trovare qualcosa. Al nostro arrivo infatti sono a scavare solo con piccone e pala: “alla sera ho forti dolori alle braccia e faccio fatica a respirare per tutta la polvere inalata” dice Jean che aggiunge “lavoriamo tutti i giorni dall’alba ma non sempre troviamo qualcosa, quando avviene è una bella giornata”. Questo il destino di migliaia di congolesi, costretti a cercare ricchezze di cui non beneficeranno mai. Jean e i suoi compagni hanno uno stipendio molto più basso di coloro che lavorano per le multinazionali (soprattutto cinesi). Del resto sono comunque in queste che confluiscono i minerali da tale catena informale. A fornirne testimonianza sono i creusers stessi, consapevoli che, una volta che i minerali finiscono nelle mani dei cosiddetti “mediatori”, rientrano irregolarmente nel percorso di estrazione formale che conduce direttamente fuori dal Paese. Ad incentivare tutto questo quella speranza occidentale di una green economy che porta dietro di sé l’ombra di un modello di sostenibilità basato su forme di sfruttamento: il cobalto, essenziale per la costruzione di auto elettriche, proviene in gran parte da sudore e sangue del popolo congolese.



Se il governo del Paese si è sempre preoccupato di nascondere tali dinamiche, dopo la presa di Goma e la conseguente perdita di ricchezze del Kivu per mano dell’M23, la tensione è aumentata esponenzialmente. Emblematico è quanto accaduto nel tentativo di visitare la miniera di Kansonka, vicino al villaggio di Lwishia. Qui, tutto sembra costruito in funzione dell’attività estrattiva, sulla strada che conduce alle miniere si sviluppano anche quelle piccole economie di strada, in cui le capanne dove le persone abitano diventano base di commercio informale. A ciò si aggiunge il ruolo che donne e bambini svolgono nei corsi d’acqua in prossimità delle miniere per lavare i minerali trovati. In questo spazio tutto sembra una gigante catena di montaggio: i giovani scavano nella miniera di Kansonka per trovare cobalto, per poi lasciare i sacchi pieni alle donne perché li puliscano.

Noi dopo aver incontrato queste donne ci dirigiamo verso l’interno della miniera, ma, superati i primi controlli, uomini armati di Kalashnikov ci bloccano la strada: per loro la nostra lettera di permesso dello “chef de departement” di Lubumbashi non vale niente, nelle miniere non vogliono farci entrare e lì, dispersi nel nulla, hanno totale libertà di prenderci il denaro che possediamo e caricarci a forza in macchina per scaricarci nel villaggio più vicino. Perché è così che funziona in un luogo in cui il confine tra legale e illegale si fa sempre più sottile: c’è un’incertezza strutturale che, se noi abbiamo subito solo per poche ore, il popolo congolese vive continuamente. Roberto Beneduce, professore di Antropologia, in riferimento a ciò parla di sensazione di prossimità della morte. Questa “è tangibile per intero in questi contemporanei spazi di ambiguità, di sopravvivenza e di incertezza, come lo era ai tempi dei lavori forzati per la raccolta della gomma o la costruzione delle linee ferroviarie”. In altre parole: sebbene sia terminato il periodo coloniale, le dinamiche che lo hanno caratterizzato continuano, con la sola differenza di essersi spostate verso settori differenti. Il popolo congolese rimane sempre schiavo.


La storia del reportage
Le foto sono state scattate da Sara Cecchetti nel giugno 2025


