Cop27, il gas serra può ancora dormire sonni tranquilli

Non si chiude bene il summit di Sharm el Sheik ma c'è almeno un risultato importante: il fondo per le perdite e i danni prodotti nei Paesi più vulnerabili dal cambiamento climatico è finalmente realtà

I Paesi partecipanti alla Cop27 in Egitto hanno adottato una dichiarazione finale frutto di molti compromessi, che chiede una riduzione “rapida” delle emissioni ma senza nuove ambizioni rispetto all’ultima Cop di Glasgow del 2021. E se c’è accordo sugli aiuti ai Paesi in difficoltà colpiti dal cambiamento climatico non ci sono passi concreti per una coraggiosa  riduzione dei gas serra. Il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, a conclusione del vertice, ha sottolineato la  sua delusione: “Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora e questo è un problema che questa Cop non ha affrontato”. “Il fondo per le perdite e i danni è essenziale – ha aggiunto – ma non è una risposta se la crisi climatica cancella dalla mappa un piccolo Stato insulare o trasforma un intero Paese africano nel deserto”. Qui analizziamo questo importante risultato e come ci si è arrivati

di Marta Cavallaro

La ventisettesima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop27) si è aperta domenica 6 novembre a Sharm el Sheikh, in Egitto, con una felice, e quanto mai inaspettata, sorpresa. Per la prima volta nella storia della diplomazia climatica la questione del Loss and Damage (Perdite e Danni) è stata ufficialmente inserita nell’agenda dei negoziati ufficiali tra le Parti. Quando nella notte tra giovedì e venerdì scorso, giorno che avrebbe dovuto segnare la chiusura dell’evento, è stata diffusa al pubblico la bozza del documento finale, il paragrafo sui Loss and Damage era ancora vuoto. Come previsto, l’accordo tra le Parti non sarebbe stato facile. La chiusura dell’evento è addirittura slittata di due giorni a causa delle difficoltà nel raggiungere un punto di incontro su quella che è diventata la questione più scottante e controversa delle negoziazioni sul clima di quest’anno. La risposta è finalmente arrivata ieri mattina. La Cop27 sarà ricordata per l’impegno preso dalle Parti di creare entro la prossima Cop a Dubai il tanto atteso e richiesto fondo finanziario per i Loss and Damage a beneficio dei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico.

Argomento abilmente evitato fino a quest’anno, il Loss and Damage è una questione chiave per tutti coloro che soffrono le conseguenze peggiori di una crisi climatica di cui non sono responsabili. Chatham House definisce Loss and Damage come l’impatto distruttivo della crisi climatica che non può essere evitato tramite misure di mitigazioni (ad esempio, la riduzione delle emissioni di CO2) e di adattamento al cambiamento climatico. I “danni” si riferiscono alle cose, spesso infrastrutture vitali, danneggiate dai disastri climatici che possono essere riparate. Le “perdite” invece si riferiscono a ciò che è andato completamente perso, come vite umane e biodiversità. Quando viene utilizzata nel contesto delle negoziazioni sul clima, l’espressione Loss and Damage indica i costi, economici e non, che i Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico devono affrontare per compensare le perdite e i danni causati sia da eventi metereologici estremi (uragani, ondate di calore, siccità, incendi, ecc.) sia da disastri climatici più graduali come l’innalzamento del livello del mare e lo scioglimento dei ghiacciai.

Si stima che entro il 2050 i costi dei danni e delle perdite causate dalla crisi climatica raggiungeranno per i Paesi in via di sviluppo quote altissime, comprese tra 1 e 1,8 miliardi di dollari. Molti di questi Paesi contribuiscono in misura minima al cambiamento climatico, eppure ne soffrono le conseguenze peggiori. Per questo pretendono che i Paesi più ricchi, storicamente le principali fonti di emissioni di CO2, paghino per i danni e le perdite causate.

Un po’ di storia

La questione del Loss and Damage è da anni presente nelle negoziazioni globali sul cambiamento climatico. L’espressione appare per la prima volta nel 1991, quando Vanuatu, piccolo Stato insulare situato nell’Oceano Pacifico, propose di creare un meccanismo assicurativo internazionale per fare in modo che i piccoli Stati insulari in via di sviluppo fossero risarciti per l’impatto dell’innalzamento del livello del mare.  Per molti anni i progressi in materia sono stati minimi, soprattutto perché l’attenzione internazionale si è gradualmente spostata sui finanziamenti per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico. Nel 2009, al termine della Cop tenutasi in Danimarca, i Paesi più ricchi promisero di mobilitare collettivamente 100 miliardi di dollari entro il 2020 per finanziare misure di mitigazione e adattamento nei Paesi più poveri, con l’obiettivo di aiutarli ad abbandonare i combustibili fossili e sviluppare sistemi energetici più ecologici. La promessa non fu mai mantenuta.

Il concetto di Loss and Damage ritorna alla ribalta nel 2013 con l’istituzione del Meccanismo internazionale di Varsavia (WIM), organismo che si occupa specificatamente di danni e perdite, creato al termine della Cop19 a Varsavia. L’obiettivo del WIM era quello di creare uno spazio pubblico per promuovere conoscenza e scambio di informazioni sulla gestione delle perdite e dei danni causati dal cambiamento climatico, aumentare il dialogo e la coordinazione tra le parti interessate e incoraggiare sostegno reciproco.

Due anni dopo, la riluttanza dei Paesi ad affrontare la questione delle perdite e dei danni giocò un ruolo chiave anche nella stesura dell’Accordo di Parigi del 2015. L’articolo 8 dell’Accordo di Parigi riconosce “l’importanza di evitare e ridurre al minimo le perdite e i danni dei cambiamenti climatici, compresi gli eventi metereologici estremi e gli eventi lenti a manifestarsi, e di porvi rimedio”. Ma, quando il testo fu adottato dalle Parti in causa, fu chiarito esplicitamente che l’articolo 8 non forniva nessuna base legale per invocare qualsiasi forma di responsabilità o obbligo al risarcimento.  Le ultimi due novità relative alla questione risalgono al 2019 e al 2021 con la creazione del Santiago Network for Loss and Damage e del Glasgow Dialogue, due iniziative volte, ancora una volta, a promuovere dialogo tra le Parti, fornire assistenza tecnica e definire un meccanismo per gestire i finanziamenti di danni e perdite.

Insomma, potremmo definirla una storia di fallimenti e promesse non mantenute. Quest’anno, all’indomani dell’inserimento del tema nell’agenda dei negoziati ufficiali, l’obiettivo era di trovare il “grande accordo” per stabilire come calcolare in termini di denaro perdite e danni e per dare vita ad un meccanismo finanziario che potesse garantire il risarcimento da parte dei Paesi più ricchi a quelli più poveri e vulnerabili al clima. Lo scontro sul Loss and Damage ha visto due fazioni contrapposte scontrarsi l’una contro l’altra: da una parte la Cina e i 134 Paesi emergenti del G77 chiedevano la creazione di un fondo ad hoc finanziato dai Paesi più sviluppati, dall’altra gli Stati Uniti e Unione Europea puntavano ad aggiornare gli strumenti di aiuto già esistenti.

Fino a venerdì sera, ufficialmente l’ultimo giorno della Cop, sembrava che anche quest’anno l’evento si sarebbe concluso con un nulla di fatto. A sbloccare l’impasse è stata l’Unione Europa che ha accettato le richieste della controparte proponendo però alcune condizioni. L’obiettivo europeo era quello di rivedere la platea dei beneficiari, includendo solo i Paesi “particolarmente” vulnerabili come destinatari degli aiuti. L’idea era quella di evitare che superpotenze come Cina e India e Paesi con un alto PIL pro capite come quelli del Golfo, formalmente ancora indicati come in via di sviluppo, potessero accedere agli aiuti. Allo stesso tempo, era chiara la volontà europea di allargare la base dei donatori per fare in modo che anche Paesi emergenti come la Cina versassero contributi al fondo. Molte questioni e nodi fondamentali relativi al fondo, ad esempio chi pagherà e da dove saranno estratte le risorse finanziarie, sono ancora da definire. Le raccomandazioni in merito dovrebbero arrivare dalla commissione istituita ad hoc per lavorare sul tema entro la prossima Cop28 a Dubai.

Una questione di giustizia climatica

Ma perché la questione dei Loss and Damage appare così controversa? Accettare di stabilire un meccanismo finanziario per risarcire danni e perdite implica l’ammissione, seppur implicita, delle responsabilità dei Paesi ricchi per la crisi climatica da essi provocata. I Paesi industrializzati esitano a impegnarsi in qualsiasi misura che indichi una responsabilità legale o finanziaria, perché farlo implica correre il rischio di scatenare una valanga di processi e cause e assumere impegni futuri incalcolabili. Per questo, preferiscono usare un linguaggio e un approccio diverso che punta a finanziare misure di adattamento e mitigazione per prevenire e ridurre l’impatto futuro del cambiamento climatico, invece di concentrarsi sul risarcimento delle perdite e dei danni che sono già stati causati. Nel frattempo, i Paesi più vulnerabili si trovano ad affrontare, con una quantità insufficiente di risorse finanziarie a disposizione, gli effetti più immediati e peggiori del cambiamento climatico.

È per questo che quando si parla di Loss and Damage si parla inevitabilmente di giustizia, o meglio ingiustizia climatica. Perché i Paesi più vulnerabili dovrebbero farsi carico dei danni e delle perdite derivanti dalle emissioni dei Paesi ricchi e industrializzati?  Il contributo dell’Africa alle emissioni globali si ferma al 4%, quello dei Paesi insulari scende addirittura all’1%. Non solo questi Paesi soffrono le conseguenze più gravi del cambiamento climatico, ma la loro popolazione è anche nettamente più giovane di quella dei Paesi più industrializzati. Il 60% della popolazione africana ha meno di 25 anni ed è quindi nata dopo la stesura e la ratifica del Protocollo di Kyoto. Sulla vita dei giovani africani si ripercuotono gli effetti peggiori di una crisi che non hanno avuto alcun ruolo nel creare.

Spesso quando si parla di giustizia climatica, lo si fa pensando alle generazioni future. Si parla di giustizia intergenerazionale, sottolineando la necessità di preservare la nostra terra per coloro che dovranno abitarla in futuro. È più raro invece che l’attenzione sia posta sulla necessità di una giustizia intragenerazionale: la giustizia globale tra popoli che appartengono alla stessa generazione. Sarebbe utile ricordare che il cambiamento climatico è già una realtà che sta già provocando e alimentando ingiustizie e disuguaglianze. Molto spesso l’idea delle necessità e dei bisogni delle generazioni future, in particolare nel mondo occidentale, offusca la responsabilità altrettanto immediate nei confronti di coloro che dal cambiamento climatico sono colpiti adesso.

Oggi più che mai è utile porsi delle domande. Che cosa significa parlare di giustizia climatica? Di che tipo di giustizia climatica si parla? A chi sono diretti i nostri sforzi? Che tipo di modernità e futuro vogliamo preservare? È utile porsi queste domande e darsi delle risposte per evitare che le soluzioni ideate per uscire, o almeno per imparare a convivere con la crisi climatica, ripropongano gli stessi meccanismi di potere e subalternità che l’hanno creata.  Un’attenta considerazione della questione dei Loss and Damage sta alla base di una più ampia comprensione del cambiamento climatico e delle risposte che il mondo è disposto a trovare per affrontarlo. Definire un meccanismo finanziario per il risarcimento climatico potrebbe servire per cominciare a pensare ad un nuovo equilibrio economico globale. Farlo, ascoltando le voci e le richieste dei suoi futuri beneficiari, potrebbe essere un modo per evitare che il futuro da preservare rimanga quello definito dall’Occidente ricco per l’Occidente ricco.

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