Dayton, 25 anni dopo

E' passato un quarto di secolo dagli accordi che dovevano sancire la pace in Bosnia Erzegovina: il risultato è un Paese diviso, con due entità maggiori, un distretto autonomo, 14 Costituzioni, un governatorato internazionale, 14 governi con circa duecento ministri

di Raffaele Crocco

Dicono, tutti, che era indispensabile. Dicono, tutti, che quella guerra, dopo l’eccidio a Sebrenica, dopo l’assedio di Sarajevo, la battaglia di Mostar, le purghe, i campi di detenzione, le rappresaglie, doveva finire. Arrivarono così gli accordi di Dayton. Venticinque anni dopo, restano lì, a spaccare l’opinione di esperti, pacifisti, politologi. La Bosnia Erzegovina di oggi è figlia di quegli accordi e un quarto di secolo dopo, continua a non essere una terra di pace. Riavvolgiamo il nastro, torniamo al 1995. La guerra, scoppiata ormai da tre anni e mezzo, nel 1992, è diventata macelleria. L’intervento dell’Onu non l’ha fermata. Le trattative iniziano il 1 novembre, avviate da Warren Christopher.

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E’ il segretario di Stato degli Stati Uniti. Il presidente è Bill Clinton, che si prepara al secondo mandato. I rappresentanti politici dei tre popoli in lotta sono riuniti nella base aerea Wright-Patterson a Dayton, in Ohio. Sono,Slobodan Milošević, presidente della Jugoslavia e rappresentante degli interessi dei serbo-bosniaci, il presidente della Croazia Franjo Tuđman e quello della Bosnia Erzegovina, Alija Izetbegović. La conferenza ha un regista: è il mediatore statunitense Richard Holbrooke, che lavora per far capire al Mondo – siamo negli anni appena successivi al crollo dell’Unione Sovietica – che il futuro è legato alle regole della pax americana. Ci sono anche l’inviato speciale dell’Unione Europea, Carl Bildt e il viceministro degli Esteri della Federazione Russa, Igor’ Ivanov. Sono due oneste controfigure. Il 21 novembre, l’intesa a tre viene raggiunta. L’accordo verrà ratificato a Parigi il 14 dicembre 1995, all’Eliseo, giusto per dare un po’ di ruolo anche alla Francia.

Cosa succede in quelle settimane? Semplicemente che gli Stati Uniti decidono che è ora di far tacere le armi. Vanno per le vie più spicce: accettano, di fatto, la situazione che si è determinata sui campi da battaglia, assegnando a ciascun popolo più o meno quanto aveva conquistato o occupato o difeso. Propongono quindi la divisione della Bosnia in due entità: la Federazione di Bosnia Erzegovina e la Republika Srpska o Repubblica serba di Bosnia. La Federazione viene a sua volta suddivisa in dieci cantoni, più o meno rappresentativi di chi li abita fra bosgnacchi e bosniaco-croati.

L’effetto sarà devastante. Agli accordi viene allegata una Costituzione, che ricalca esattamente le intese e che non è mai stata modificata. Il risultato è quello che possiamo vedere oggi: un Paese spaccato, diviso, rappresentato istituzionalmente e politicamente da due entità maggiori, un distretto autonomo, 14 Costituzioni, un governatorato internazionale, 14 governi con circa duecento ministri. La stessa suddivisione e moltiplicazione di figure è riscontrabile in ambito giudiziario, nell’amministrazione, nella sanità. Insomma: non c’è nulla di realmente controllabile, verificabile, efficiente. Soprattutto, c’è solo la rappresentazione degli interessi specifici di ognuna delle tre entità.

Così, dopo 25 anni, la democrazia reale è un’illusione, i tre popoli hanno scuole separate, raccontano storie della guerra differenti, continuano ad accusarsi senza alcuna voglia di confrontarsi e riappacificarsi. Venticinque anni dopo, quello che resta di Dayton è un cessate il fuoco che rischia di gettare benzina su future guerre nel cuore dell’Europa. Nessuno sembra voler avvero costruire la pace in Bosnia Erzegovina

In copertina uno scatto di Sarajevo da Unsplash: credit: Natalya Letunova

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