Dietro l’assassinio di Soleimani

Perchè Trump ha ordinato l'uccisione di Soleimani? Oltre all'imminente espulsione delle forze militari di stanza in Irak, è una guerra aperta tra Iran e Usa probabile?

di Elia Gerola.

La morte del generale iraniano Qasem Soleimani, avvenuta per ordine diretto di Trump, sta sollevando preoccupazione nella comunità internazionale e si sta configurando come un punto di svolta nello scenario Mediorientale. Ha infatti già portato a due importanti conseguenze: da una parte la richiesta di espulsione delle forze americane e straniere di stanza in Irak, più di 5000 uomini, con circa 1100 italiani, per volere del Parlamento di Bagdad; dall’altra un’ulteriore diminuzione dell’implementazione dell’accordo sul nucleare annunciata dall’Iran. Per comprenderne la portata di tali sviluppi, risulta però importante contestualizzare l’accaduto, riflettere sulle motivazioni statunitensi, e sulle ripercussioni imminenti e di lungo termine.

Trump durante la Conferenza Stampa del 3/01/19

L’operazione è stata immediatamente rivendicata dal Dipartimento della Difesa americano, che ha motivato l’uccisione di Soleimani definendola di carattere “difensivo”: sia preventivo”nei confronti di una minaccia “imminente,” che “deterrente” nei confronti di attacchi futuri, che Soleimani stava sviluppando. Trump, in una conferenza stampa, tenuta da un proprio resort sito in Florida e in successive dichiarazioni, ha affermato di aver direttamente dato l’ordine di “terminare Souleimani”, definendolo un “terrorista” che “sarebbe dovuto essere ucciso molto prima” e che la sua morte è finalizzata a “finire una guerra, non a cominciarla”. Pressoché immediata è stata la conferma e la reazione alla scomparsa del generale da parte di Teheran, dove sono stati proclamati tre giorni di lutto nazionale e Qassam Soleimani è stato definito un “martire” dal presidente Hassan Rouhani, che come la guida suprema iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha promesso di vendicarlo. Alle numerosissime voci di cordoglio si è anche aggiunta quella del moderato ministro degli esteri Zarif, che ha bollato in un tweet l’uccisione come un “brutale e stupido assassinio,” un atto di “terrorismo internazionale,” “un’estremamente stupida e pericolosa escalation”. In una nota rivolta al Segretario delle Nazioni Unite Guterres, l’ambasciatore iraniano Ravanchi ha invece chiesto che gli Usa vengano resi responsabili per la loro azione illegale, assicurando che l’operatività militare iraniana non verrà scalfita dalla dipartita di Soleimani.

La comunità internazionale è quindi in apprensione e piuttosto divisa; la guerra aperta, che come vi abbiamo ricordato sarebbe costosissima sotto molti punti di vista, sembra infatti un’opzione sul tavolo, tuttavia, praticamente tutti i leader internazionali stanno invitando alla moderazione e alla riflessione, in attesa di capire quale possa essere la ritorsione iraniana. La Russia, tramite il ministro degli esteri Lavrov, ha sottolineato l’illegalità dell’atto; gli alleati americani in Europa hanno invitato alla moderazione, con la Vice-Ministra degli Esteri francese Amélie de Montchalin che ha chiosato: “Ci svegliamo in un mondo più insicuro”. Dall’altra le condanne del gesto sono arrivate da tutto il mondo sciita e dai suoi alleati: Assad in Siria, la leadership di Hezbollah in Libano, quella di Hamas in Palestina così come dal Governo e dal Parlamento iracheni. Molti Paesi occidentali hanno quindi innalzato i livelli di guardia: la Germania ha invitato i propri militari d’istanza in Iraq a non lasciare le proprie basi militari; mentre Netanyahu, Primo Ministro israeliano, venerdì 3 gennaio ha interrotto prematuramente la visita di Stato in Grecia ed è ritornato in Israele, per gestire la prevenzione della possibile vendetta iraniana, dopo aver espresso la propria soddisfazione per la decisione di Trump. Compiaciuti ma preoccupati per la risposta iraniana sembrano anche i paesi sauditi.

Le ragioni dell’attacco, che rappresenta almeno simbolicamente, un colpo al cuore della leadership della Repubblica Islamica iraniana, sono riconducibili a motivazioni eminentemente politiche. Seguendo quindi l’invito del New York Times, passiamo a vagliare la “saggezza” dell’operazione statunitense, non la sua “giustificabilità” giuridica. Significativa a quest’ultimo riguardo è però l’analisi pubblicata da Pressenza, che non sembra avere dubbi, l’azione Usa avrebbe violato innumerevoli Trattati Internazionali a partire dalla Carta delle Nazioni Unite, che impedirebbe l’uso della forza in Stati Terzi senza il consenso del loro Governo, così come di impiegare mezzi violenti per risolvere le dispute internazionali, a meno che non si sia in guerra conclamata oppure non si debba rispondere in legittima difesa ad un attacco diretto. Per molti giuristi, la morte di Soleimani sarebbe quindi un vero e proprio crimine internazionale, un’operazione militare illegittima, e quindi un illegale assassinio.

Ministro iraniano degli esteri Zarif

Da una parte l’attacco rappresenta l’apice dello scontro che ormai da mesi vede contrapposte Washington e Teheran in un climax ascendente di reciproche accuse e azioni militari ostili più o meno efficaci. Con l’avvento dell’amministrazione Trump infatti gli Usa si sono ritirati dall’Accordo sul Nucleare Iraniano siglato nel 2015, hanno perseguito una strategia di “massima pressione” contro Teheran, attanagliandola con nuove e pesanti sanzioni economiche, di fatto rifiutando ogni forma di dialogo bilaterale e multilaterale sulla questione. Il risultato è stato quello di costringere l’Iran a passare ai fatti: violando simbolicamente l’accordo sul nucleare riprendendo l’arricchimento dell’uranio nella primavera 2019; sabotando almeno due petroliere straniere naviganti nello stretto di Hormuz; abbattendo un UAV statunitense sempre in quello stretto e colpendo, verso la fine dell’estate, dei siti petroliferi sauditi. Fino ad arrivare all’inverno 2019, dove la dinamica di cosiddetto tit for tat, ovvero di una serie di provocazioni e ritorsioni continue, che hanno visto gli Usa colpire ripetutamente delle basi di milizie sciite pro-iraniane in Iraq, che hanno risposto attaccando con dei razzi una base militare alleata, uccidendo un mercenario statunitense e ferendo altri militari il 27 dicembre; ai nuovi bombardamenti Usa contro milizie sciite (circa 25 morti), sono quindi seguite importanti proteste di piazza a Baghdad, culminate martedì 31 nell’assalto all’ambasciata americana, accompagnata da atti anti-americani e inneggiamenti filo-iraniani. Inoltre da non dimenticare sono i recenti sviluppi politici iracheni: da una parte la riconquista di molti siti strategici precedentemente controllati dall’ISIS, dall’altra la nomina parlamentare a primo Ministro del filo-iraniano Asaad al-Eidani (poi rifiutato dal Presidente irakeno), sintomo di una maggioranza parlamentare pro-iraniana.

Soleimani con Abu Mahdi al-Muhandis nel 2017.

Perché Soleimani però? Poiché il sessantaduenne generale iraniano, bollato dal Governo statunitense come guida di un gruppo terroristico è stato additato come la mente dietro agli attacchi alle postazioni americane in Irak, così come alle proteste dell’Ultimo dell’Anno. Inoltre, a detta di moti analisti e come sembrano confermare le folle radunatesi ai suoi funerali, Qassem Soleimani era la seconda figurapiù influente e potente della Repubblica Islamica.Era dunque un eroe, addirittura “più potente di un presidente”, come spiega Michael Safi dalle colonne del Guardian,nonché la guida delle più importanti operazioni iraniane in campo militare e di intelligence all’estero. Soleimani guidava infatti dagli anni Novanta le cosiddette forze militari Quds, letteralmente “Città Santa”, nome che rimanda all’obbiettivo di questi corpi speciali delle Guardie della Rivoluzione Islamica: militari d’elite, ferventi islamici, che hanno promesso la conquista di Gerusalemme. Scopo delle strategie architettate e perseguite da Soleimani è infatti stato quello di animare, sostenere militarmente, e organizzare logisticamente il cosiddetto “asse di resistenza sciita” in Medioriente. Così, dopo aver represso i curdi in Iran negli anni Ottanta, aver preso parte al conflitto tra Iran e Iraq, e aver con affrontato la piaga del traffico di droga con l’Afghanistan, nel 1998, su nomina diretta dell’Ayatollah, Soleimani divenne l’architetto delle operazioni di guerra per procura organizzate e sponsorizzate dall’Iran all’estero: in Libano con Hezbollah, in Israele e Palestina con Hamas, in Yemen tramite il supporto ai ribelli antigovernativi Houthi. Più recentemente Soleimani è invece stato impegnato in Siria, dove ha contribuito a far sopravvivere il regime dittatoriale di Bashar Al-Assad, e in Irak, dove tramite il supporto alle milizie sciite, (guidate fino al 3 gennaio erano guidate da Abu Mahdi al-Muhandis morto con Soleimani) come quella ombrello del cosiddetto “Movimento Popolare per la Liberazione” ha coordinato la significativa resistenza sciita alle forze sunnite dello Stato Islamico.

Dall’altra è importante concentrarsi sul contesto

Manifestazioni di piazza

statunitense. Innanzitutto come viene ricordato dal NYT, non si tratta dell’uccisione mirata di leader in fuga a capo di gruppi terroristici internazionalmente riconosciuti, quali erano Bin Laden (Al Qaeda) e Abu Bakr al-Bagdadi (ISIS); bensì di un ufficiale di alto rango e sotto i riflettori mediatici, all’apice della gerarchia di comando di uno Stato internazionalmente riconosciuto ed affermato quale è l’Iran. Inoltre, come spiega sempre il NYT, non può essere vero che l’occasione di colpire Soleimani fosse l’unica, come ha dichiarato ad esempio Kristen Fontenrose al Guardian. Infatti era più che noto che Soleimani fosse un generale operativo in Iraq nella lotta allo Stato Islamico, quindi non si stava certo nascondendo dai servizi di intelligence americani. Non solo, ma più osservatori hanno ricordato che le precedenti amministrazioni americane di Bush e Obama avevano avuto chances simili, che  avevano però attentamente evitato. Temevano infatti la reazione iraniana e la creazione di un ondata di risentimento anti-occidentale e mitizzazione della figura del già osannato generale, cosa che effettivamente sembra stare avvenendo, come mostrano le decine di migliaia di iracheni e iraniani scesi in piazza in segno di cordoglio a Bagdad come a Teheran.

Secondo vari analisti quindi, alla storica rivalità tra Iran e Stai Uniti, e alla serie di attacchi reciproci tra Washington e Teheran, questa volta si sarebbero aggiunte prepotenti anche questioni politiche domestiche. La procedura di impeachment, che vede Trump sotto processo del Senato americano con l’accusa di abuso di potere, così come le imminenti elezioni presidenziali del novembre 2020, potrebbero aver indotto il Presidente ad individuare una possibile vittoria facile, o comunque un conflitto con il quale distrarre i propri elettori ed avversari e riunificare la nazione. Se a livello interno i Repubblicani stanno sostenendo il Presidente, mentre i Democratici invitano alla de-escalation, a livello di strategia geopolitica internazionale, la mossa di Trump sembra invece configurarsi come l’ennesimo atto improvvisato. Innanzitutto né Trump né il segretario di Stato Pompeo hanno fornito dettagli circa “l’imminente minaccia” che Soleimani avrebbe

Segretario di Stato Pompeo

orchestrato, rendendo la giustificazione di un tale atto piuttosto blanda. La dinamica dell’operazione sembra inoltre essere stata profondamente unilaterale, viste le dichiarazioni piuttosto nervose e piatte degli alleati occidentali. Infine la decisione risulta scarsamente lungimirante, dato che il Segretario di Stato Pompeo ha poi ripetutamente twittato invitando alla de-escalation del conflitto, senza però indicare una chiara linea politica per perseguirla e soprattutto dopo aver almeno simbolicamente gravemente colpito la controparte iraniana.

La verità è che ora la situazione tra la Casa Bianca e Teheran sembra essere precipitata. Trump ha definitivamente prosciugato il capitale di disponibilità e moderazione che la leadership iraniana aveva recentemente mostrato e sviluppato con Obama. Ora, come argomentato su Foreign Affaris da Ilan Goldenberg, il rischio, mai così alto da anni, è quello dell’aumento del livello del conflitto. A coloro che prevedono una guerra aperta in Medioriente, rispondono in maniera più convincente gli analisti come Kelly Magsamen, che prevedono una rappresaglia iraniana lenta, geograficamente distribuita, e giocata in maniera non frontale. L’Iran non possiede infatti i mezzi militari convenzionali necessari per poter reggere uno scontro in campo aperto con gli Stati Uniti, né le disponibilità economiche necessarie per sostenere un conflitto mediorientale che si annuncerebbe come annoso e dannoso per la sua economica interna già in difficoltà.

E’ quindi più probabile che la risposta sia di natura asimmetrica

Forze Militari iraniane

e si esplichi in molteplici modalità, come suggerito in un’analisi da Max Fischer. Da una parte l’Iran lancerà una serie di messaggi politici: rilancerà la propria politica nucleare militare incrementando l’arricchimento dell’uranio, proverà ad incrementare la propria influenza in Iraq, dove ha già ottenuto un’importante vittoria con il voto del Parlamento iracheno che il 5 gennaio ha ordinato il ritiro delle truppe statunitensi di stanza nel Paese. Dall’altra vi saranno invece una serie di manovre offensive di carattere più materiale, probabilmente condotte per procura dalle milizie sciite schierate nei diversi stati mediorientali, contro basi militari, distretti industriali, ambasciate e consolati americani. Anche operazioni meno convenzionali, che Pompeo ha dichiarato di aver considerato come forme di possibile rappresaglia, come riporta Politico, quali l’impiego della cyberguerra per colpire infrastrutture informatiche pubbliche e private sarebbero altamente probabili. A questo probabile conflitto a bassa intensità, si aggiungono come possibili obiettivi gli alleati mediorientali americani, quali Israele e Arabia Saudita, nemici giurati dell’Iran.

In ogni caso, chi rischia nuovamente di rimetterci è l’Irak, che potrebbe configurarsi ancora una volta campo di battaglia di una guerra aperta, o comunque di un conflitto condotto per procura, abbandonato in una fase post-bellica molto delicata, dove il terreno fertile di miseria, insoddisfazione e povertà sul quale l’Isis aveva attecchito e prosperato, e migliaia di civili e militari sono morti, è ancora presente.

 

Foto di copertina: Soleimani con Ali Khamenei nel 2015.

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