di Alessandro De Pascale
Scrivendo nel bene o nel male una pagina di storia, come ormai prevedibile da giorni, alle prime luci dell’alba di oggi anche la capitale siriana Damasco è caduta nelle mani dei rivoltosi guidati dagli integralisti islamici di Hayat Tahrir al-Sham (HTS, ex braccio locale di al-Qaeda). Quest’ultimo è attualmente il più potente gruppo ribelle del Paese, alleato dell’Esercito Nazionale Siriano, una sigla di cui fanno attualmente parte diverse milizie siriane appoggiate dalla Turchia. Il suo leader, Abu Mohammed al-Golani, in un’intervista esclusiva rilasciata giovedì alla prima emittente all-news nata al mondo, la statunitense CNN, aveva chiarito senza mezzi termini l’obiettivo di questa campagna militare rapida e inarrestabile iniziata appena 13 giorni fa: rovesciare il governo di Assad.
Tale scopo è stato a seguire ammesso pubblicamente il giorno successivo anche dal vero architetto di questa offensiva armata contro il potere costituito a Damasco, ovvero il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il quale parlando ad Istanbul davanti ai giornalisti ha precisato al mondo intero: «Dopo Idlib, Hama e Homs l’obiettivo sarà Damasco. La marcia delle forze di opposizione va avanti. Speriamo che continui senza problemi».
Complicazioni, almeno sul terreno siriano, non ce ne sono state, visto il ritiro dell’esercito lealista dalle proprie posizioni. Lasciate senza quasi colpo sparar, ai ribelli. Compresa la strategica area nella Siria orientale dei pozzi petroliferi e dei giacimenti di gas di Deir Ezzor, ultima roccaforte del militarmente sconfitto Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS), dove alle truppe lealiste si sono rapidamente sostituiti i curdi delle Forze Democratiche Siriane (SFD), le quali hanno spiegato di essere intervenute per garantire protezione alla popolazione dell’area di fronte al riemergere in quella zona di quest’altra sigla combattente.
Mentre stanotte le colonne dei gruppi ribelli guidati da HTS marciavano spedite verso Damasco, i raid aerei governativi e dell’alleato russo erano cessati. Le potenze straniere coinvolte nel conflitto, Russia, Turchia e Iran, erano del resto già sedute ad un tavolo di trattative nel Golfo Persico, a Doha (capitale del Qatar), per concordare le condizioni della resa di Bashar al-Assad e l’assetto politico della nuova Siria, senza il diretto interessato.
A fare le veci del clan familiare finora al potere nel Paese, nella petro-monarchia qatariota c’era però il Cremlino, grazie al quale l’ormai ex presidente siriano è rimasto al potere in questi ultimi anni, riconquistando praticamente l’intero Paese, a parte il confine con la Turchia da tempo nelle mani di Ankara (attaccata a più riprese anche la Rojava curda) e la già citata provincia di Idlib governata dagli integralisti islamici di HTS vicini allo stesso Erdogan.
Tornando al tavolo delle trattative diplomatiche in Qatar per la ‘fine’ di questi 13 anni di guerra civile siriana, difficile ad esempio che Mosca rinunci facilmente alla base aerea di Khmeimim, ma soprattutto a quella navale di Tartus, l’unica del Cremlino nello strategico Mar Mediterraneo. Tutti avamposti dai quali in queste ore sono stati segnalati aerei in partenza e navi rapidamente salpate.
Nelle stesse ore il primo ministro siriano del vecchio regime degli al-Assad, Mohammed Ghazi Jalali, ha rilasciato un video nel quale ha innanzitutto dichiarato «questa è casa mia, non sono fuggito poiché questo è il mio Paese». Un riferimento sicuramente legato alla sorte dell’ormai ex presidente siriano, di cui si sono perse le tracce da giorni.
A tal proposito, secondo Rami Abdurrahman, fondatore dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR), un’organizzazione indipendente e imparziale con sede nel Regno Unito, Bashar al-Assad Assad avrebbe lasciato il Paese già una settimana fa, con un volo partito dalla capitale Damasco e quasi sicuramente diretto in Russia, dove già si trovava la sua famiglia. Secondo altri, dopo essere già stato a Mosca nei giorni scorsi, l’ormai ex presidente siriano avrebbe provato ad abbandonare definitamente la Siria a bordo dell’ultimo e unico aereo decollato da Damasco alle 01:55 (un Il-76 della Syrian Air) e diretto alla base navale russa di Tartus, scomparso dai radar nei pressi di Homs alle 2:39, mentre si trovava a 500 metri di quota. Fatto sta che le guardie presidenziali hanno smesso di presidiare i palazzi dell’ormai ex potere, mentre nelle strade si festeggia.
Sempre nel video in questione, il premier Jalali ha dichiarato che l’attuale governo è pronto a «tendere la mano» all’opposizione, consegnando così le proprie funzioni a un nuovo esecutivo di transizione. Aggiungendo poi che, anche stamattina, si sarebbe recato come se niente fosse nel proprio ufficio per continuare a lavorare, invitando peraltro i propri concittadini siriani a tutelare le proprietà pubbliche: durante l’avanzata dei ribelli, oltre a statue e raffigurazioni di Bashar al-Assad rimosse dai manifestanti, in diversi villaggi e cittadine sarebbero state violate diverse strutture governative. Si teme per il destino delle armi chimiche, stoccate in diversi siti governativi.
Come neve al sole si è sciolto così, forse per sempre, alle prime luci dell’alba, il potere preso nel 1971 in Siria dal clan della minoranza alawuita degli al-Assad. Originari proprio dell’area del Paese affacciata sul Mediterraneo dove si trovano le basi militari della Russia, la quale dopo aver già salvato Bashar, entrando in campo nel 2015 come suo alleato nella guerra civile siriana iniziata nel 2011 (sull’onda delle cosiddette Primavere Arabe), come già prima di essa avevano fatto il gruppo libanese Hezbollah nel 2012 e le milizie iraniane l’anno seguente. Tutti ora sono impegnati su altri fronti di guerra.
Questi ultimi 13 anni di conflitto in Siria hanno già provocato 300.000 vittime civili (dati ONU), cui vanno aggiunti quanti sono morti a causa dell’assenza causata dal conflitto dei servizi essenziali di base (quali generi alimentari o assistenza sanitaria) e le centinaia di questi ultimi 15 giorni. A conti fatti, il bilancio totale potrebbe quindi di gran lunga superare il mezzo milione di morti.
Il conflitto in Siria ha generato una delle peggiori crisi umanitarie al mondo: attualmente, sempre secondo l’ONU, in Siria ci sono 6,5 milioni di sfollati interni. Altrettanti siriani si sono rifugiati all’estero (soprattutto in Turchia, Libano, Giordania e Iraq). Quelli di questi ultimi 13 giorni sarebbero già 50.000. Complessivamente, oltre il 60% della popolazione pre-bellica della Siria ha dovuto lasciare le proprie case a causa di questa guerra.
A quanto è dato sapere, una della prime cose che hanno fatto gli uomini guidati da HTS una volta entrati a Damasco è stato aprire il carcere militare di Sednaya, ovvero le celle della struttura di detenzione governativa che per alcuni era da tempo diventata ‘la prigione simbolo della brutalità del potere siriano’. Da quei due edifici, ribattezzati un ‘mattatoio umano’, provenivano 50.000 foto (giudicate autentiche anche dalla polizia federale statunitense FBI) portate nel 2015 alle Nazioni Unite, all’Unione Europea e sul tavolo di un procuratore tedesco da Caesar (nome di fantasia), un fotografo forense dell’intelligence militare siriana, con l’obiettivo di mostrare al mondo le «violazioni dei diritti umani sotto il presidente siriano Bashar al-Assad».
Nella foto in copertina, manifesti col volto di Bashar al-Assad nelle strade della capitale siriana Damasco ©hanohiki/Shutterstock.com
Per saperne di più leggi la nostra scheda conflitto sulla Siria e il Kurdistan