DOSSIER ATLANTE – La voce di chi non ha voce. Intervista a Luciano Scalettari di Alessandra Montesanto per Assaman.info


 

Da vent’anni racconta i conflitti che hanno insanguinato l’Africa. Il continente senza voce ha trovato in Luciano Scalettari un testimone sempre capce di analizzare le atrocità della sua storia. Lo fa sulle pagine di Famiglia Cristiana, settimanale di cui è inviato speciale, o nei suoi libri. E Scalettari fa inchieste su misteri irrisolti che uniscono il nostro Paese e l’Africa. Come l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Collabora con l’Atlante dei conflitti, in pèarticolare in materia di Africa.

Quando vi recate “sul campo” a chi vi appoggiate (per es. per entrare in contatto con le persone da intervistare? Sicuramente farete un lavoro preparatorio prima di partire… Potete raccontare un momento in cui vi siete trovati in difficoltà?

Per quanto riguarda gli esteri mi occupo prevalentemente di Africa. Il lavoro preparatorio è sempre intenso, sia per quanto riguarda la storia la realtà e l’attualità del Paese, sia in relazione alla scelta del percorso di viaggio, dei luoghi da vedere e delle persone da intervistare. La particolarità dei viaggi africani è che il margine di imprevisto e le condizioni “di forza maggiore” che costringono a cambiamenti di programma e a variazioni significative sono frequenti. La situazione cambia in maniera sensibile se sono già stato nel Paese dove mi accingo ad andare o se si tratta della prima volta. Nel primo caso ho già una rete di contatti e di riferimenti che rendono l’organizzazione assai più semplice. Se sto per partire alla volta di un Paese nuovo, i contatti sono da costruire. Il lavoro è più laborioso e le incognite molto maggiori. La scelta delle tipologie di contatti da attivare varia anche in relazione al tipo di reportage da realizzare e al tema d’attualità che si va ad affrontare. Se si tratta di una situazione di conflitto o guerra civile, l’organizzazione è ovviamente molto più complessa. In ogni caso, nella grande maggioranza dei casi, dei riferimenti validi e costanti sono i cooperanti, i missionari, le agenzie umanitarie. Quasi sempre ci sono sul posto, all’interno di queste organizzazioni, alcune figure di grande competenza e disponibilità che permettono di rendersi conto in fretta della situazione e di proseguire nel lavoro di reportage in modo efficace. Naturalmente, la questione andrebbe articolata in molti ulteriori dettagli, sfaccettature e tipologie di casi, ma temo che la risposta diverrebbe molto lunga.

Da chi è formata la troupe, nel caso in cui vengano girati i video-documentari?

Ormai è prassi che ci si muova in due. Giornalista e fotoreporter/cameraman. In alcune circostanze questo costringe anche il giornalista a supplire col reportage fotografico (nei momenti in cui diventa prevalente l’importanza delle immagini video e il fotografo/operatore utilizza massicciamente la telecamera).

Cosa pensa dell’espressione “Esportare la democrazia”? 

E’ un’espressione che ha giustificato molte guerre e disastrose lacerazioni sociali, politiche e religiose. A mio avviso l’unica “democrazia” esportabile è la disponibilità a far conoscere la propria cultura (in senso lato) e a conoscere quelle altrui. Il dialogo può avvenire solo sui terreni comuni dei diritti umani fondamentali (quando questi terreni comuni ci sono).

Cosa l’ha più colpita dei conflitti africani?

In questi vent’anni mi sono trovato spesso davanti a situazioni, testimonianze, storie che mi hanno profondamente cambiato e che hanno inciso nella mia vita, nelle scelte quotidiane, nelle convinzioni e nelle opinioni. Tuttavia, dopo tanto tempo le immagini più sconvolgenti restano ancora quelle legate al genocidio ruandese, che fu una delle mie prime esperienze africane. I fatti del 1994 rimangono quanto di più terribile mi sia capitato di essere testimone e di dover raccontare. Il continuare a vedere, vent’anni fa come oggi, folle di uomini donne e bambini sull’orlo della morte per fame rimane quanto di più scandaloso si sia costretti a narrare.

Esiste ancora un’etica giornalistica, specialmente quando si ha a che fare con la popolazione che vive una situazione complessa e drammatica?

Credo che sia necessaria un’etica quanto mai rigorosa per esercitare il giornalismo. E non a caso, a mio avviso, tutti i grandi maestri di giornalismo, sono considerati tali per aver saputo dimostrare di averla. Non certo per la bella scrittura o per il coraggio. Nel tempo mi sono sempre più convinto che il valore principale della professione giornalistica sia nella capacità di essere testimoni credibili degli accadimenti e nella capacità di porsi interrogativi su ogni questione, e di porle all’interlocutore/intervistato con ostinazione, fino alla sfrontatezza. Specie oggi, con le nuove tecnologie, non c’è il problema di acquisire la notizia o l’immagine, ma di cercare di capire ciò che accade, chiedere spiegazioni, cercare di raccontarlo. Con la consapevole umiltà di narrare quel poco che si è capito e quelle – quasi mai esaurienti – risposte che si sono ottenute.

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