FaceBook nella campagna elettorale brasiliana

Secondo una ricerca di Global Witness lo scarso controllo sui messaggi pericolosi in Rete alimenta la disinformazione

di Stafano Bocconetti

Lo sfondo è il Brasile, quel Paese ormai prossimo alle elezioni dove l’attuale Presidente Bolsonaro – da sempre sotto Lula nei sondaggi – sembra aver adottato il metodo Trump: e con molto anticipo sta già spargendo dubbi sul risultato delle consultazioni. Parlando di brogli, di vittoria sottratta da “un bandito”, esattamente nello stile “stop the steal” della destra eversiva statunitense. E sempre sullo sfondo ci sono quei 150 milioni di adulti – elettori – brasiliani che per un’abbondante metà sono iscritti ai social. Dove discutono, s’informano, litigano. Questo lo sfondo. La notizia, invece, è che FaceBook sta di fatto dando una mano – una grossa mano – a creare quel clima pericoloso, irrespirabile. Con conseguenze rischiosissime.

Di cosa si parla? Che dopo le ricerche e le denunce sulla totale indifferenza del social più diffuso al mondo davanti ai contenuti violenti e razzisti – in Etiopia, in Myanmar ma anche in Kenya, nell’immediata vigilia delle elezioni –, un altro studio inchioda Zuckerberg ed il suo gruppo. Che di fatto, facilita, alimenta la disinformazione in Brasile. Lo studio è stato realizzato dai ricercatori del gruppo Global Witness, un’organizzazione da sempre in prima fila contro gli abusi, soprattutto nel campo digitale. E’ lo stesso gruppo che aveva indagato su ciò che si poteva leggere on line a Nairobi nei giorni che hanno preceduto il voto. E anche in questa occasione ha adottato lo stesso metodo: ha inviato messaggi palesemente provocatori, sbagliati, che contenevano disinformazione, fake news senza possibilità di dubbio. Non si è trattato però di messaggi di testo nelle aree discussioni, l’equipe di studiosi ha proposto la pubblicazione di alcuni annunci.

Questo per molti motivi: il primo è che – stando ai regolamenti di FaceBook/Meta – un messaggio a pagamento, come è appunto un annuncio, deve prima ricevere un nulla osta, che arriva nel giro di qualche giorno. Questo lasso di tempo consente a Global Witness di cancellarlo, in modo che non arrivino al pubblico. La seconda ragione, ancora più rilevante, è che FaceBook, proprio parlando delle elezioni brasiliane, proprio parlando di quel Paese che quattro anni fa vide protagonisti negativi i social nella vittoria di Bolsonaro, da qualche settimana ha messo le mani avanti: “Siamo impegnatissimi (il superlativo è nei loro comunicati, ndr) a proteggere l’integrità elettorale in Brasile, come in tutto il mondo”. Di più: il gruppo ha detto “di essersi preparato da tempo per le imminenti elezioni in Brasile, sperimentando anche nuovi strumenti”. Fra gli altri, un’etichettatura di tutti i post relativi alla “pubblicità politica”.

La pratica ha dimostrato il contrario. I ricercatori hanno chiesto la pubblicazione di dodici annunci. Tutti in portoghese. A differenza del test fatto in Kenya, stavolta i ricercatori di Global Witness non hanno proposto messaggi razzisti, con incitamento all’omicidio, alla discriminazione. Se vogliamo hanno provato a rendere ancora più facile il lavoro dei moderatori: si sono inventati delle palesi, grossolane bugie. In un annuncio sostenevano che le elezioni – previste per il 2 ottobre – per alcune minoranze etniche come i Pankakaru, i Kaingang, i Xavante ed i Kayapo erano state posticipate di qualche giorno. In un altro sostenevano che si poteva votare anche senza documenti e che se i funzionari pubblici l’avessero impedito gli elettori avrebbero dovuto protestare con forza. Un altro ancora, invitava tutti ad utilizzare anche le ultime ore prima delle elezioni, per combattere il voto elettronico. Che in Brasile c’è dal 1996, funziona regolarmente da ventisei anni.

In base alla policy di Zuckerberg, tutto ciò, gli annunci “politici” avrebbero dovuto avere un mittente chiaro, facilmente identificabile. “Per evitare interferenze”. Misura aggirata senza problemi, visto che l’equipe ha creato banalissimi nuovi indirizzi di posta elettronica. Ed ancora, di più allarmante: quando è stata avviata la procedura per la pubblicazione degli annunci, i ricercatori non si trovavamo fisicamente in Brasile, né hanno fatto nulla per mascherare la loro posizione (utilizzando per esempio una connessione Vpn). Non hanno fatto nulla, gli annunci sono stati inviati da Nairobi e da Londra. Nessuno ha chiesto loro di inserire la targhetta “a pagamento”, come pure sarebbe obbligatorio per le comunicazioni elettorali. Senza contare che Global Witness, ha proposto e ottenuto che il pagamento potesse avvenire da un altro Paese, non dal Brasile.

Tutto, ma proprio tutto, avrebbe dovuto allarmare FaceBook, dunque. “Non è accaduto nulla”, invece, come spiega Jon Lloyd, consulente senior di Global Witness. Nulla se non l’ok di FaceBook per procedere al pagamento.
L’associazione ha chiesto allora un commento alla Big Tech. Che un po’ maldestramente ha risposto che non ha avuto la possibilità di leggere dettagliatamente lo studio e quindi, per quei casi specifici non aveva nulla da dire. Salvo aggiungere che comunque fa tantissimo per garantire una corretta informazione in Brasile, tanto che nel giro di un po’ di mesi ha cancellato centoquarantamila post solo da FaceBook. Numero insignificante rispetto alla mole di traffico nel Paese sudamericano.

Restano le domande, allora, inquietanti. Sul potere di Zuckerberg, sul suo rifiuto – non a parole ma nei fatti – a riconsiderare la politica di moderazione dei contenuti per i paesi non anglofoni. Restano gli interrogativi sulle possibilità di interferenza su un’elezione. Anche da parte di gruppi o paesi stranieri. Sulla possibilità di interferire su chi dispone di tanti soldi. Restano le domande su cosa significhi la democrazia negli anni dei monopoli digitali.

In copertina uno scatto di  Sergey Zolkin (Unsplash)

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