Genova/G8, quella sfida per cambiare il Mondo

Una riflessione del direttore del Progetto Atlante e di Unimondo a vent'anni dai fatti del luglio 2001 nella città ligure dove si teneva il vertice

                       

  di Raffaele Crocco       

 Ho letto tanto, credo quasi tutto quello che è stato pubblicato in questi giorni. Ho ascoltato. Ho guardato e visto, perché non sempre se si guarda si vede. Ho pensato, anche, perché in quei giorni io c’ero. Ero lì come militante, non come giornalista. Non ero andato per raccontare, ero andato per ascoltare. Ero andato perché era giusto esserci. Ero andato perché volevo stare con la mia gente, con quelli che pensavano – come io pensavo, come oggi ancora penso – fosse possibile cambiare il Mondo. Scrivo del G8 di Genova a vent’anni di distanza solo oggi. Non ne ho mai scritto. Anzi no: una poesia, la notte delle sirene verso la Diaz. Avrei saputo del disastro solo qualche ora dopo.

Il disastro, in realtà, c’era già stato. Carlo Giuliani era stato ucciso in piazza. Io ero distante: mentre gli sparavano, cercavo di capire come liberare tre amici – erano venuti a Genova con me – che la polizia aveva appena fermato e fatto inginocchiare in una via laterale, un po’ distante. La confusione nata dai colpi di pistola mi permise di correre verso di loro, di farli alzare, di fuggire assieme. Scappammo in una stretta strada, fermandoci con il fiatone. Una donna – forse sui sessanta – era alla finestra. Ci vide arrivare. Rientrò in casa e ne usci con questo bicchieri d’acqua fresca. Fu lei a dirci “pare ci sia un morto, un ragazzo, in piazza Alimonda”.

Da due giorni vedevamo i pestaggi sistematici delle forze dell’ordine. Assaltavano il cortei di Legambiente, dell’Arci, di chiunque. Picchiavano donne e uomini con i capelli bianchi, mamme con i bambini, uomini assennati, tutti distanti dalla zona rossa. Il caporedattore della Gazzetta di Mantova, regolarmente accreditato, era stato prelevato dalla Polizia e portato in caserma. Da due giorni vedevamo anche gli assalti dei Black Bloc, seguiti da altri. Assaltavano auto, negozi, cassonetti. Poi, solo dopo, arrivavano le divise, in assetto di guerra. Il disastro era in questa guerra che, come sempre, faceva vittime fra chi non la cercava, non la voleva, non aveva armi. Il disastro lo vedevamo crescere nella continua ricerca della “distanza” della “separazione” fra “noi e loro”, dove noi eravamo i rappresentanti delle ingiustizie e loro erano un potere che pare non avere faccia, sembra essere distaccato da tutto e irraggiungibile per tutti.

Eppure, a Genova, come altrove nella storia triste di questo Paese, gli uomini che picchiano in piazza erano i tutori dell’ordine democratico, cioè i nostri tutori. Erano comandati, come in altre occasione nella storia triste di questo Paese, da persone che avevamo appena eletto con regolari elezioni. Quei governanti – perché lo dimentichiamo? – erano i rappresentanti democratici di un Paese democratico. Non erano golpisti o usurpatori o rappresentati celesti di divinità crudeli. No, erano quelli che la maggioranza degli italiani aveva scelto. In qualche modo, eravamo noi, anche se quelli di quel governo non li avevamo vitati e voluti. Eravamo noi, perché la democrazia che ci sostiene e regge siamo noi. Sempre. Anche se siamo minoranza.La sconfitta di Genova – perché siamo stati sconfitti a Genova e ancora oggi lo siamo – sta nel volere alimentare questo distacco. Sta nell’avere accettato che nelle scuole, nella società, nella vita quotidiana, il senso della democrazia e dei diritti umani non venisse insegnata. Sta nel non aver costruito l’educazione al diritto, alla diversità, al rispetto. Sta nell’ambiguità che troppo spesso abbiamo rispetto alla democrazia e ai suoi difetti. Sta nell’accettare che, ogni anni, vi siano 80miliardi di euro di evasione fiscale. Sta nel permetter ancora oggi che lo Stato democratico venga rappresentato e si rappresenti come qualcosa di lontano da noi, quasi fosse il Re Sole.

E così, conviviamo con servizi deviati, segreti di Stato che in una democrazia non dovrebbero esistere per principio e logica, con verità nascoste che creano continuamente nuove caste di potere, come fossimo una monarchia. Viviamo sapendo che chi protesta può essere picchiato, torturato, incarcerato come fosse un criminale.
A Genova abbiamo perso – e continuiamo a perdere – perché non abbiamo la voglia di rovesciare davvero il tavolo per la battaglia di base: tenere in vita l’idea che i diritti umani vanno rispettati sempre, ovunque e da chiunque. E’ la chiave essenziale per tenere, oggi, in vita una democrazia sempre più fragile.

La foto di copertina del corteo è di Michele Ferraris

La foto nel testo è di M. Realdi (Unimondo)

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