Dietro la “guerra commerciale” Usa -Cina

Auto elettriche, sindacalizzazione e proprietà intellettuale al centro del confronto. L'analisi dell'economista Luigi Luini 

 di Maurizio Sacchi

 Luigi Luini è professore dell’ Università di Siena,  Dipartimento di Economia e Statistica,  Dottorato di ricerca in economia, dal 1997. I suoi campi di studio principali sono Organizzazione industriale. Economia della regolamentazione, Microeconomia. E’ stato Visiting Professor, CERGE-EI, Università Carlo, Praga (2012),Professore ospite, Facoltà di Economia dell’Università di Istanbul, Dipartimento di Economia (2012), Professore ospite, Università di Montreal, (2009) ,Visiting Professor, California Institute of Technology, Pasadena (1995) Visiting Professor, Central European University, Praga (1994-5). Risponde qui a una serie di domande sulla “guerra commerciale” tra Usa e Cina

Quali sono I rapporti fra l’economia statunitense e quella cinese dopo un anno di Governo Biden?

“Le modificazioni alla politica economica internazionale USA da parte dell’amministrazione Biden, riguardano – in termini generali, essenzialmente due temi:  la riaffermazione del “multilateralismo” e   il rientro negli “accordi sul clima”. Per quanto riguarda la politica dei dazi, esiste un elemento di continuità riguardo al loro mantenimento a livello globale, per quanto riguarda le importazioni di acciaio e alluminio, che tuttavia sono stati sospesi per la UE, ma non per il Regno Unito.  Per quanto riguarda nello specifico la politica dei dazi rispetto alla Cina vanno ricordati i passaggi precedenti. La “guerra commerciale” USA- Cina è iniziata nel 2018 da parte degli USA, che hanno incrementato le tariffe doganali in una misura senza precedenti, sia per scopo che per entità: gli aumenti, dal 10 al 50 percento hanno riguardato più di 12,000 prodotti per un ammontare di 300 miliardi $ di importazioni. In risposta a questi aumenti tariffari numerosi partner commerciali USA, inclusa Cina, EU, Canada, Messico, e Turchia, hanno innalzato le loro tariffe in media del 16 percento, e per un ammontare approssimato di 121 miliardi di $ di esportazioni U.S.

Nel dicembre 2019 con la Cina è stato raggiunto un “accordo di fase uno” – visto come una interruzione della “escalation”, con cui la Cina si è impegnata a un “commercio gestito” con gli USA consistente in un ammontare extra di importazioni dagli USA pari a 200 miliardi di $ entro la fine del 2021.  Dal canto suo le tariffe USA sulle importazioni di beni cinesi venivano fissate al 15% e quindi dimezzate per un valore di 100 miliardi di $, mentre veniva mantenuta la tariffa del 25 percento sulle esportazioni cinesi, per un ammontare di 250 miliardi di $. L’aspetto interessante è che queste tariffe sono concentrate su parti, componenti e altri prodotti intermedi, cosicché l’”accordo” del dicembre 2019 (con alte tariffe bilaterali) va a costituire la “nuova normalità”. Quindi il riaggiustamento delle tariffe con la Cina era già avvenuto nella fase finale dell’amministrazione Trump.

L’amministrazione Biden ha proseguito lungo la correzione di rotta iniziata nel dicembre 2019: possiamo forse dire che ci troviamo di fronte a una oggettiva pulsione protezionistica americana, che rischia di entrare in rotta di collisione con il desiderio dell’attuale presidenza di perseguire alleanze internazionali per affrontare la nuova doppia “pace calda”, con la Russia e -soprattutto- con la Cina. Un esempio che mostra le linee guida di politica industriale interna in versione Dem – ma che potrà avere ampi effetti internazionali, non solo rispetto alla Cina ma anche rispetto ai tradizionali alleati Europei e Giapponesi., è dato dal recente disegno di legge Build Back Better, relativo agli incentivi (un credito d’imposta di 12.500 $) per gli acquirenti di auto a batteria e ibride, Di tale sussidio, 4.500 $ andranno solo a chi acquisterà un’auto prodotta negli USA in aziende i cui dipendenti sono sindacalizzati. Altri 500 $ di “monte-sussidi” andranno a chi acquisterà auto con batteria made in USA. Tali sussidi di impronta protezionistica e “progressista” hanno ricevuto una pessima accoglienza da parte dei costruttori d’auto tedeschi e giapponesi e non senza ragione. L’associazione tedesca di categoria (VDA) ha sottolineato che i sussidi erogati dalla Germania per l’acquisto di vetture elettriche e ibride sono disponibili a chiunque, indipendentemente da luogo di produzione e dalle condizioni sindacali nelle fabbriche.

Va ricordato che i produttori auto USA (GM e Ford) hanno abbandonato il mercato europeo, mentre i produttori tedeschi hanno assemblato negli Stati Uniti (lo scorso anno) 742.000 auto, con un numero di addetti pari a 60.000. Audi, Volkswagen e BMW sono tra i maggiori venditori di ibride plugin ed elettriche pure negli USA. Ma mentre Audi non ha impianti nel paese, VW e BMW non hanno sindacato in quegli impianti.Per quanto riguarda il Giappone, la Toyota, i cui impianti americani non sono sindacalizzati,ha iniziato una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica americana, in essa si sostiene che tale misura indica che avere più veicoli elettrici per le strade è obiettivo secondario rispetto a quello di promuovere la sindacalizzazione. Nel frattempo, le ambasciate dei Paesi con impianti di assemblaggio auto negli Stati Uniti e la stessa Commissione Europea, stanno esercitando pressione per modificare il disegno di legge.

In che modo?

Va notato che la Commissione Europea è impegnata a promuovere la sindacalizzazione nella Ue, attraverso il dibattito parlamentare relativo alla introduzione di una direttiva sul salario minimo. Va ricordato infine che il disegno di legge Build Back Betteresclude anche alcuni prodotti americani. Infatti i modelli elettrici di Ford prodotti negli impianti messicani sono esclusi dai 4.500 $ di sussidio. L’impressione è che il nuovo trattato commerciale NAFTA, ridenominato USMCA (US, Mexico, Canada) sia disegnato per portare quanto più elevati benefici sul piano strettamente nazionale e per indurre il “reshoring” , [il progetto di riportare la produzione nei Paesi d’origine dei marchi]. Quindi la transizione all’auto elettrica presenta aspetti di politica commerciale internazionale decisamente complessi, e il tentativo di bloccare le importazioni di auto elettriche cinesi, può produrre l’effetto secondario (e indesiderato) di suscitare un indebolimento dell’alleanza con i partner tradizionali europei e giapponesi.”

Sul famoso  “sorpasso” dell’economia cinese  su quella degli Usa quali punti di vista   esistono: viene ritenuto imminente?   probabile? E che significato avrebbe?

“Il sorpasso sul PIL c’è già stato; mentre per quanto riguarda il sorpasso sul PIL procapite, c’è ancora distanza notevole tra Usa e Cina. Tuttavia per rispondere alla domanda che sottintende la “pericolosità” del sorpasso, occorre riprendere le dispute economiche USA-Cina, i loro caratteri essenziali e le loro diverse pericolosità. I “pericoli” connessi al sorpasso possono essere visti da 2 angolazioni: la politica commerciale (connessa al sovrappiù di esportazioni cinesi) che causa chiusura di aziende e disoccupazione negli USA e  la politica dell’innovazione (connessa alla violazione dei diritti di proprietà intellettuale, particolarmente in settori strategici -ad es i semiconduttori) che mette in pericolo sia la “sicurezza nazionale” USA, sia i diritti di proprietà intellettuale di imprese private US.  In particolare (pericolo numero 1) alla base del sovrappiù commerciale Cina-USA ci sarebbero:

a) Una moneta cinese (renminbi) tenuta artificialmente sottovalutata rispetto al dollaro usa, che potenzierebbe le competitività delle esportazioni cinesi

b) Una economia pianificata cinese che può sussidiare a piacere i settori di esportazione, facendo quindi dumping (e concorrenza sleale ai produttori nazionali) sul mercato americano.

La “sistematica” politica di sottovalutazione della moneta cinese rispetto al $US ha oggi molto minor peso rispetto agli anni ’80 e ’90, in quanto gran parte delle esportazioni cinesi sono prodotte a loro volta con prodotti intermedi importati. Quindi se svalutare conviene per esportare di più, svalutando si finisce con il pagare di più le importazioni. Oggi la Cina importa prodotti intermedi in misura estesa dagli altri Paesi asiatici (Corea, Taiwan, Giappone, ecc) e ciò comporta un legame tra i tassi di cambio delle monete di questi Paesi asiatici.

L’argomento b) “economia pianificata e sussidi mirati ai settori-imprese di esportazione, va visto nei dettagli settoriali. Ad esempio la politica commerciale dell’acciaio e dell’alluminio è certamente influenzata dall’eccesso di capacità produttiva degli impianti cinesi (ma anche coreani) che ha portato all’aumento delle tariffe doganali di USA e EU. Ma per i prodotti da esportazione dell’industria manifatturiera “non pesante”, cioè quella dei beni di consumo finale tale argomento dei sussidi perde gran parte della sua forza.

Per quanto riguarda il sovrappiù di esportazioni cinesi  (e importazioni USA) rispetto alle importazioni cinesi (e esportazioni USA) occorre distinguere tra il saldo “lordo”, il saldo in “valore aggiunto” e il saldo da “reddito da esportazione”.  Mentre in genere i politici e la stampa non specializzata tendono a riferirsi al saldo “lordo” e a sottolineare l’”enorme” disavanzo USA; una analisi più tecnica – e non solo accademica, sottolinea che tale enorme disavanzo è di molto ridotto se si ragiona in termini di “valore aggiunto” (un iPhone –“designed in US and assembled in China” aggiunge valore alle esportazioni cinesi solo per  la fase di assemblaggio, mentre le componenti sono fornite da nove imprese)  quasi tutte localizzate fuori dalla Cina in particolare Corea Sud, Giappone , e USA (vedi la Tavola 1 riportata qui).  Tutti i componenti dell’ iPhone prodotti da queste imprese sono spedite alla Foxconn, impresa di Taiwan localizzata in Cina, per essere assemblate nel prodotto finale, per poi infine essere esportate in US e nel resto del mondo. Quindi la parte relativa alle componenti non prodotte in Cina va riferita ai Paesi fornitori (con il corrispondente valore aggiunto) e quindi l’”enorme” disavanzo risulta molto più contenuto se misurato in “valore aggiunto”. Idem per le scarpe Nike, per gli aspirapolveri Dyson, ecc.

Un’analisi ancora più tecnica in termini di “reddito da esportazione”, che si ha quando il  valore aggiunto generato in un Paese  può produrre reddito in un altro Paese (se ad esempio la sussidiaria VW localizzata in Cina produce profitti trasferiti alla capogruppo in Germania, allora risulta chiaro come i “deficit” commerciali dei Paesi ricchi diventano più piccoli e i surplus commerciali dei Paesi poveri meno grandi. Il dibattito sulla “scorrettezza” delle politiche commerciali, con in testa la Cina, deve tener conto anche di questo ulteriore aspetto.  Se si deve dar credito alle previsioni sull’economia cinese al 2050, l’enorme surplus commerciale finirà con il trasformarsi in un deficit, e questo poiché l’economia cinese sarebbe progressivamente sempre meno orientata verso le esportazioni, e sempre più verso la crescita interna.

Vogliamo affrontare il tema dell’innovazione che è uno degli aspetti più sotto i riflettori?

Per quanto riguarda la politica dell’innovazione, la Cina ha adottato e adotta tuttora una politica di violazione dei diritti di proprietà intellettuale (brevetto, diritto d’autore, marchio commerciale) che comporta il furto – anche attraverso lo spionaggio, di proprietà intellettuali essenziali sia per la sicurezza nazionale USA, che per i legittimi diritti delle imprese USA operanti nel settore dell’informazione e comunicazione. In tale caso occorre considerare il peso – in termini di valore aggiunto, via via crescente che vengono ad avere i diritti di proprietà intellettuale in una economia dei servizi avanzati sempre più limitata nel suo peso fisico – ad esempio studiando il rapporto tra il costo di ricerca per produrre un vaccino poi protetto da brevetto, e il valore di un software, del tutto privo di supporto fisico. Siamo cioè in quella che viene chiamata l’economia da capitale “intangibile”. In questo caso vanno studiate in dettaglio le modalità di trasferimento tecnologico “forzato”- termine usato dalla stampa economica per definire due problemi molto diversi: 1) il furto di proprietà intellettuale in un Paese e il suo utilizzo in un altro Paese (caso Huawei), 2) l’investimento di un’impresa US in Cina (caso Apple) e il trasferimento tecnologico che ne deriva”

Come Atlante, cerchiamo di evidenziare e portare a conoscenza dei lettori non solo le guerre in corso, ma anche le situazioni di conflitto latente che si esprimono in morti già nel presente, e che potrebbero essere la radice di guerra se portate all’estremo. Uno di questi fattori è la diseguaglianza, che in molte aree del Pianeta, dall’ America Latina al Medio Oriente, stanno causando violenza e perdita di diritti. Come affronta il problema l’economia attuale?

“Il tema della violenza e della connessa perdita di diritti di base non è tema centrale nel dibattito economico, mentre lo è il tema della diseguaglianza o meglio delle “diseguaglianze”. Il tema è visto oggi presso il largo pubblico attraverso la concentrazione delle risorse (sia ricchezza che reddito): l’1% della popolazione che possiede quote così elevate della ricchezza complessiva di un Paese. Un altro punto di vista importante è quello della crescita e dello sviluppo di quei Paesi, presso i quali conflitti latenti a volte precedono e a volte seguono guerre soprattutto civili e/o di confine tra Paesi. Qui il punto interessante studiato recentemente è quello di come i cambiamenti climatici – una variabile, quindi, esterna alla volontà immediata di guerra e pace, hanno giocato e giocheranno un ruolo rilevante sia nel generare diseguaglianze (anche di accesso a  un bene essenziale come l’acqua) e causare movimenti migratori – che spesso sono alla base di conflitti locali.  Ridurre le diseguaglianze causate dalle modificazioni del clima è compito difficile per i Paesi ricchi, ma pare ancora più complesso per i Paesi poveri, soprattutto per quelli nei quali i conflitti sono latenti o la situazione è addirittura di guerra.

Una modalità di cooperazione internazionale per l’aiuto di questi paesi alla riduzione delle emissioni di gas serra è stata già suggerita, e consiste nell’emissione di Diritti Speciali di Prelievo da parte del Fondo Monetario Internazionale, che consenta a questi paesi di praticare politiche attive che vadano nel senso di essere in grado -dal punto di vista finanziario, di iniziare a realizzare politiche nella direzione degli accordi di Parigi.”

 

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