Hiroshima e l’incubo nucleare


 

 

di Raffaele Crocco

E’ accaduto il 6 agosto, come oggi. Dicono che ci fu un lampo a mezz’altezza, nel cielo, poi caldo e vento e fuoco. E centomila morti in pochi istanti. Altrettanti negli anni successivi.

Il 6 agosto è Hiroshima, la prima bomba atomica sganciata con l’obiettivo di uccidere. Chi lo decise – il 33mo presidente degli Stati Uniti, Harry Truman – lo fece in nome di una pace più vicina. Lo fece per risparmiare la morte, così diceva, di migliaia di persone coinvolte in una guerra altrimenti interminabile. Lo fece perché l’umanità era stanca di quella orrenda strage che fu la Seconda Guerra Mondiale.

Qualunque fosse la ragione, lo fece e segnò per sempre un tempo, il nostro. Gli ordigni nucleari si sono moltiplicati nei decenni. Oggi quasi non ci pensiamo più. Finito l’incubo dello scontro fra Stati Uniti e Urss fra il 1945 e il 1990 – un incubo creato da quasi 65mila testate nucleari negli arsenali – abbiamo accantonato la paura della bomba. Negli anni ’70 si organizzavano marce sì per la pace, ma soprattutto contro le bombe atomiche. Il terrore di una guerra nucleare alimentava le giornate, le vite, era lì, sospeso, in mezzo a noi.

Ora non più. Si fanno marce contro chi fa la guerra. Non si manifesta per distruggere gli arsenali atomici. Le testate nucleari esistenti oggi, in questo momento, mentre scrivo, sono circa 17.200. Le hanno la Russia, gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra, la Cina, l’India, il Pakistan, la Corea del Nord e Israele. Sono tante. Sono troppe.

Ognuna di quelle testate ha potenza cento volte superiore alla prima bomba di Hiroshima. Ciascuna di esse avrebbe effetti tremendi su uomini, animali e cose. Sono lì. Sono pronte ad essere usate. Gli esperti dicono che se India e Pakistan si bombardassero a vicenda con una sola delle loro bombe – e i due Paesi sono in conflitto da decenni – il risultato sarebbe terribile. I morti sarebbero milioni. La nube radioattiva contaminerebbe migliaia di chilometri quadrati di terre. Agricoltura e aria sarebbero un ricordo per anni. L’economia dei due Paesi verrebbe azzerata e gli Stati confinanti non ne uscirebbero indenni. Insomma, impensabile.

Tanto impensabile che non ne parliamo. Giornali, radio tv ignorano il problema, come se le testate non ci fossero. Parliamo di Hiroshima, però, una volta ogni anno, il 6 agosto. Non capiamo che quel 6 agosto del 1945 è sempre il nostro pericoloso presente.

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