Honduras: parte una nuova carovana

In fuga dalla violenza delle maras. Incidenti alla frontiera. Il ruolo del Messico

Il 15 di gennaio, una carovana di qualche centinaio di migranti provenienti da San Pedro Sula, seconda città dell’Honduras, si è scontrata con la polizia honduregna alla frontiera del Guatemala che ha tentato di boccarne il transito. Come un anno fa, quando una carovana di migliaia di persone traversò il Centroamerica e il Messico, giungendo fino alla frontiera con gli Stati uniti. La forza che ha sospinto i migranti ad affrontare il viaggio è stata quella della disperazione. 

San Pedro Sula rimane infatti ostaggio delle maras, le bande criminali che, nate negli Usa negli anni ’80 da figli di emigranti centroamericani, si sono installate in Honduras, Guatemala e Salvador, dove esercitano un potere di fatto che si esprime in sequestri, estorsioni e violenze di ogni tipo. Secondo Small Arms Survey, un progetto di indagine indipendente dell’Istituto di studi internazionali di Ginevra, l’Honduras e il Salvador, sono fra i 5 Paesi più violenti del mondo, con Venezuela, Siria e Afghanistan. Le famiglie fuggono oltre che dalla violenza, anche dal rischio che i propri figli finiscano anch’essi a ingrossare le fila di queste gang.

Carlos Martínez, un giornalista salvadoregno appartenente al progetto El Faro, che tenta di trovare una via d’uscita da questo scenario da incubo,  lavora sulla questione delle bande nel suo Paese da nove anni e indica nella complicità dei governi  dell’istmo la capacità di controllo schiacciante che queste organizzazioni criminali hanno accumulato nel tempo. “La vita quotidiana, in particolare quella dei più poveri, è interamente disegnata dalle azioni delle bande”. Cita il caso di un salvadoregno cui sono state date 12 ore dall’MS-13 (nota anche come Mara Salvatrucha)  per lasciare la propria casa, pena la morte.

La risposta di Trump

Un anno fa, la risposta alla carovana da parte di Donald Trump fu di tagliare ogni aiuto economico ai governi centroamericani, accusati di non fare nulla per fermare il flusso di migranti illegali verso gli Stati Uniti. E di condizionare la ripresa dei finanziamenti a un’efficace opera di blocco e di controllo dei migranti da parte delle forze dell’ordine locali.

Anche con il Messico, l’amministrazione Trump ha usato tutto il suo peso economico e politico, perché arrestasse la marea umana nel proprio territorio. Mentre il Presidente battagliava col Congresso per avere mano libera nell’erigere il muro alla frontiera messicana, ai suoi vicini a Sud imponeva la creazione di un’apposita forza di polizia per intercettare i migranti prima del Rio Bravo. Utilizzando l’arma preferita, ovvero la minaccia di tariffe sulle importazioni dal Messico, che ha come primo partner commerciale proprio la repubblica stellata. 

Pressioni a cui il Messico ha dovuto cedere, e il cui presidente Lopez Obrador ha potuto affrontare solo adottando una politica di accoglienza sul proprio territorio per le popolazioni in fuga. E’ in territorio messicano, infatti, che avverrà l’esame dei requisiti dei migranti, ed è qui che viene offerto di rimanere, o permanentemente, o in attesa di ottenere un regolare permesso per gli Usa. 

Come era prevedibile, del cosiddetto “piano Marshall” per il Centroamerica, si è persa ogni traccia, ed eco sulla stampa. Le grandi opere, dalla ferrovia che dovrebbe collegare fra loro le capitali dei Paesi centroamericani alle centinaia di scuole sicure da edificare per offrire un’alternativa e un futuro ai giovani, sono rimaste sulla carta. E vi è poco da sorprendersi, poiché fin dall’inizio si era dichiarato che la gran parte delle risorse economiche sarebbe dovuta derivare dagli investitori privati. Che in queste condizioni di sicurezza non sono apparsi.

(Red/Ma.Sa)

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