I Brics si riuniscono mentre la guerra divampa

Convergenze e divergenze mentre si infiamma il conflitto mediorientale

di Maurizio Sacchi

l prossimo summit dei Paesi Brics si terrà dal 22 al 24 ottobre nella città russa di Kazan. A Johannesburg furono ammessi come nuovi membri Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto e Arabia Saudita (che non ha ancora completato il processo di adesione). Benché non sia in agenda, la questione del conflitto in Medio Oriente non potrà essere evitata. Al momento, qual è la posizione degli Stati membri? Appaiono convergenze che mettono sul banco degli imputati sia Israele, che gli Usa, che viene generalmente identificato come suo alleato. Ma non mancano le differenze. 

Negli ultimi mesi, la Cina ha cercato di svolgere un ruolo più importante in Medio Oriente man mano che i suoi legami commerciali e diplomatici con la regione si espandono. Nel marzo dell’anno scorso, Pechino ha contribuito a mediare un accordo tra Arabia Saudita e Iran, per ristabilire i legami diplomatici tra due Paesi in conflitto per diverse ragioni: religiosi, fra sunniti e sciiti, territoriali (Teheran rivendica il controllo dei luoghi sacri, Medina e la Mecca), e anche di collocazione nelle alleanze globali. All’inizio di luglio, Pechino ha inoltre organizzato incontri che hanno portato alla riconciliazione tra le fazioni palestinesi rivali, tra cui Hamas e Al Fatah. 

La Cina è il più grande importatore mondiale di petrolio e, dopo la Russia, il Medio Oriente è la fonte principale di importazione, essenziale per il funzionamento della sua economia. Un conflitto più ampio  in Medio Oriente potrebbe influenzare i prezzi e le forniture di energia.  I principali  fornitori di Pechino sono i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e l’Iran, un volume di affari nel 2023 da oltre 300 miliardi di dollari. Questo sembra suggerire un ruolo più attivo dell’Impero di mezzo nell’area, e infatti Pechino richiama alla necessità del cessate il fuoco, e alla fine del conflitto. Ma non si tratta di neutralità, poiché Israele e Usa vengono indicati come i colpevoli della situazione, e ad essi si attribuisce la responsabilità e l’onere della fine delle ostilità.

E l’India? Negli ultimi anni, il primo ministro indiano Narendra Modi ha operato una svolta incondizionata verso Israele, con motivazioni strategiche, economiche e ideologiche. Alla vigilia dell’operazione militare israeliana contro la città di Rafah, a sud di Gaza, i media indiani hanno riferito che l’esercito israeliano era pronto a introdurre droni di fabbricazione indiana per la sorveglianza e i bombardamenti aerei. Una netta escalation del ruolo dell’India nello sforzo bellico israeliano e un segno della sua accresciuta propensione al rischio in Medio Oriente. All’indomani degli attacchi del 7 ottobre, Modi è stato tra i primi leader mondiali a rilasciare una dichiarazione di “solidarietà con Israele”, anche prima di Washington. Diverse migliaia di lavoratori indiani sono poi emigrati in Israele a causa della carenza di manodopera, dopo che Israele aveva annullato i permessi di lavoro dei lavoratori palestinesi di Gaza.

Sul piano diplomatico, Modi ha ribadito la sua politica tradizionale a favore di uno Stato separato in Palestina. Lo scorso dicembre, l’India ha votato alle Nazioni Unite a favore di un cessate il fuoco immediato a Gaza, in opposizione a Israele e agli Stati Uniti. L’India adotta questa linea diplomatica pernon compromettere le sue relazioni con il Golfo. Nonostante i crescenti legami con Israele degli ultimi anni, Nuova Delhi è stata cauta nel rivedere la sua posizione sulla Palestina e nell’alienarsi gli Stati del Golfo, che rappresentano una parte significativa delle importazioni di petrolio greggio dell’India e ospitano milioni di espatriati indiani. Mentre la crisi di Gaza divampava, Modi era impegnato in un tour epocale negli Emirati Arabi Uniti e in Qatar. Ad Abu Dhabi Modi ha inaugurato un tempio indù, il primo in quel Paese. Poi, si è recato a Doha per la sua prima visita di Stato i Qatar in otto anni.

Nel 2022, otto ex ufficiali della Marina indiana sono stati arrestati con accuse non rivelate e condannati a morte da un tribunale del Qatar. Dopo molte pressioni da parte indiana, il Qatar ha finalmente ceduto. Alla vigilia della visita di Modi a Doha, le autorità del Qatar hanno rilasciato gli otto uomini e li hanno rimpatriati in India. Né il Qatar né l’India hanno affrontato pubblicamente il motivo per cui gli ex agenti sono stati arrestati e poi  rilasciati, ma pare che gli uomini lavoravano per una società di consulenza privata per la difesa con sede in Qatar ed erano stati accusati di condividere documenti sensibili con il governo israeliano. All’indomani di quel caso, il Qatar ha chiuso la società di consulenza e ha sfrattato oltre 75 dipendenti indiani che avevano lavorato per essa.

Il rilascio degli ex ufficiali indiani è arrivato sulla scia di un importante accordo energetico in base al quale il Qatar venderà 7,5 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto all’anno all’India per i prossimi 20 anni. Giorni dopo, Modi era a Doha, dove ha dato al sovrano del Qatar un “impegno a espandere e approfondire ulteriormente la cooperazione bilaterale”. Con la rivoluzione dello scisto degli Stati Uniti e il graduale allontanamento dai combustibili fossili in Europa, l’India sembra essere la scommessa più ragionevole a lungo termine come mercato per il greggio del Golfo. Se l’India è percepita come complice delle atrocità di Gaza, ciò potrebbe mettere in pericolo i milioni di indiani che vivono e lavorano in tutto il mondo arabo. A tal fine, almeno nella retorica diplomatica, sembra improbabile che Nuova Delhi cambi la sua posizione sulla Palestina.

La posizione del Sudafrica è nota: ha portato il caso della condotta di Israele nella Striscia di Gaza davanti alla Corte internazionale di giustizia il 29 dicembre 2023. Johannesburg afferma che Israele ha commesso e sta commettendo un genocidio contro i palestinesi, contravvenendo alla Convenzione sul genocidio, compreso quello che il Sudafrica ha descritto come 75 anni di apartheid da parte di Israele, 56 anni di occupazione e 16 anni di blocco della Striscia. Il Sudafrica ha chiesto che la Corte Internazionale di Giustizia indichi misure provvisorie di protezione, compresa l’immediata sospensione delle operazioni di Israele.

Ma I Brics hanno molto su cui decidere. Quest’anno potrebbero entrare Turchia, Azerbaigian e Malaysia, che nelle ultime settimane hanno presentato una richiesta formale di adesione. Vi è un forte interesse della Thailandia ad entrare, c’è la Cina che fa pressione perché entri il Kazakistan, e si attende l’Algeria che doveva entrare l’anno scorso ma è stata bloccata da un veto dell’India. In quanto alla richiesta della Turchia di entrare nel blocco, dipende dall’esito della richiesta di Ankara di entrare nell’Unione Europea, processo che vede i negoziati bloccati da circa sei anni. A confermare questa lettura ci sarebbero le dichiarazioni del ministro degli Esteri turco Hakan Fidan rilasciate giovedì 19 settembre. «Se la nostra integrazione economica con l’Unione Europea fosse stata coronata da un’adesione superiore di quella a livello di Unione doganale – ha dichiarato – forse non ci troveremmo in questo tipo di ricerca su molte questioni». L’ eventuale accettazione della candidatura di Turchia e Azerbaigian farebbe  molto comodo alla Russia, per le varie questioni in cui è coinvolta in Europa e nel Caucaso, e l’accettazione della Malesia si inserirebbe nel gioco strategico che ha per oggetto lo scacchiere Indo-Pacifico. 

Nell’immagine, l’ultimo incontro fra i leader dei Brics

https://en.wikipedia.org/wiki/BRICS#/media/File:2023_BRICS_Summit_family_photographs.jpg

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