Il Mali con gli occhi di un bambino

Foto: Lucia Michelini e Karo Zenphotographe
Testi: Lucia Michelini
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Cinquecento metri. Cinquecento metri è la distanza che separa casa mia dall’ufficio dove ogni giorno mi reco al lavoro, a Bamako.

Sono pochi metri, una piccola passeggiata per avviare bene la giornata prima delle canoniche otto ore davanti al pc, ma il breve tragitto è sufficiente per capire quanto dura possa essere la vita per un bambino in Mali.

Da quando scendo le scale di casa, a quando raggiungo quelle che mi portano all’ufficio, incontro ogni giorno una decina, o più, di bambini che lavorano per strada.  

Sotto casa, qualche piccolo fa la ronda dei rifiuti, cerca bottiglie di plastica e lattine da rivendere.  

Ad appena un centinaio di metri da quando lascio la mia via, trovo due bambini con degli stivali più grandi di loro che puliscono macchine e motorini in un autolavaggio. Sono lì tutti i giorni, anche nelle ore più calde del giorno a lavare, spazzare, sciacquare. 

Non sono neanche a metà tragitto che affianco ad una villa bianca, cancello in ferro battuto e filo spinato, sicuramente abitata da qualche occidentale, trovo una bambina che spazza pazientemente l’ingresso. Schiena china, ramazza in mano, la quantità di povere che respira facendo questo lavoro è allucinante. 

Fuori da una struttura in costruzione, sotto un tetto di cartone e quattro pareti in lamiera, Abdou, 15 anni, lavora dalle otto di mattina fino a quando fa buio nel suo piccolo emporio di frutta e verdura. Accatastate in un equilibrio surreale, in meno di un metro quadrato, si possono trovare zucchine, melanzane, patate dolci. Sacchetti di pepe alle pareti e cubetti di dado appesi come fossero una collana di perle, quasi a decorare quella bettola malsana dove Abdou passa le sue giornate. Questo bambino, perché a 15 anni si è ancora bambini, lavora con una tale professionalità che a stento sembra essere un minorenne. 

Ma il peggio deve ancora arrivare. Sto per raggiungere l’immobile dove lavoro, devo solo attraversare la strada. Il traffico di Bamako è incredibile, la strada è sempre congestionata e mi ci vogliono parecchi minuti per trovare il momento buono, e il coraggio, per attraversare. Nell’attesa, vengo travolta da una dozzina di bambini che approfittano del traffico per fiondarsi sugli automobilisti in coda al fine di racimolare qualche soldo facendo l’elemosina. Loro sono i bambini di strada. Piedini scalzi, abiti sgualciti, tutti rigorosamente con un contenitore di plastica per le offerte in una mano e l’altra sempre protesa in avanti per chiedere qualcosa da mangiare

Tra di loro, ne incontro spesso un paio, sempre insieme, di età leggermente diverse. Mi immagino che siano fratelli. Il più grande cerca in qualche modo di badare al più piccolo: lo prende per mano e lo conduce lungo la strada, mentre l’altro si succhia il pollice della mano libera. 

Considerando che nel mio quartiere, che non è neanche uno dei più periferici della capitale maliana, su un percorso di 500 metri incontro più o meno dai 10 ai 20 bambini lavoratori, quanti altri ce ne saranno nella capitale maliana? E all’interno del Paese? Bambini costretti a passare le loro giornate in condizioni precarie invece di andare a scuola e vivere in un ambiente protetto. 

Arrivo finalmente al lavoro. Prima di entrare, leggo questa frase scritta in grande sul muro di una scuola: “Quando un bambino non va a scuola è tutto un popolo che non cresce”. Lo diceva Cheikh Anta Diop, già molti anni fa.

La storia del reportage

Questo reportage è stato realizzato per Unimondo e Atlante delle guerre da Lucia Michelini