Il peso del debito americano

Nel  2025 il governo federale degli Stati Uniti deve ai suoi creditori oltre 36mila miliardi di dollari

di Maurizio Sacchi

In che modo il  debito degli Stati uniti ha raggiunto un peso così gigantesco, spesso legato alla spesa militare e alle guerre commerciali? Questa storia inizia già dalla fondazione della repubblica stellata. Dopo che Alexander Hamilton divenne Segretario del Tesoro nel 1789, il governo nazionale si assunse la responsabilità di ripagare integralmente tutti i debiti di guerra, in quel caso quella di indipendenza dall’Impero britannico. Da allora, il debito federale è stato alimentato da ulteriori guerre, recessione economica e inflazione. A partire dagli anni ’30, l’aumento del debito è diventato una costante, e oggi, nel  2025, il debito totale del governo federale degli Stati Uniti nei confronti dei creditori ammonta a oltre 36mila miliardi di dollari,  e il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti è di circa il 124 percento, il che significa che il debito è 1,24 volte superiore al volume annuale dell’economia statunitense. 

Innanzitutto è importante segnalare come l’indebitamento pubblico non sia una prerogativa esclusiva degli Usa. Anche se esso è in assoluto il più grande del Pianeta, in termini relativi al Pil, è meno della metà di quello del Giappone, che è al momento del 264 percento rispetto al prodotto interno lordo del Sol levante. Questo perché, a differenza di quanto avviene con il debito di una famiglia o di una impresa, che se non viene ripagato porta alla bancarotta, i creditori si aspettano dagli Stati soprattutto che paghino alla scadenza i bond, o buoni del tesoro. Questi rappresentano il bene rifugio per eccellenza, e quelli degli Stati uniti sono da decenni i più sicuri. Inoltre il fatto che la maggior parte dei Paesi sviluppati sia indebitato in proporzione in maniera analoga rende quasi impossibile lo scenario in cui si esiga il saldo di queste enormi somme di denaro, con la conseguente bancarotta a catena di intere nazioni. 

Ma le politiche economiche avventuriste dell’amministrazione Trump possono far saltare questo equilibrio in sé precario. Già da prima, la massiccia vendita di titoli del Tesoro ogni anno è diventata un elemento cruciale dell’economia globale. Un’improvvisa interruzione della vendita di questo bene rifugio, causata dalla perdita di credibilità degli Stati uniti  sconvolgerebbe i mercati finanziari, con conseguenze imprevedibili sul piano sociale, e non solo economico, a livello globale.

La scommessa, o forse solo la promessa durante la campagna elettorale, di Trump era di ridurre drasticamente le spese dello Stato, specialmente tagliando radicalmente i fondi ai programmi socio-sanitari, come la Previdenza Sociale e Medicare, e di ridurre in modo significativo l’ apparato statale, con licenziamenti di massa. Inoltre, secondo la propaganda, si sarebbero dovute incassare cifre enormi dai dazi sui prodotti provenienti dall’estero. E attrarre investimenti di aziende straniere, che avrebbero dovuto portare sul territorio Usa le loro produzioni, per aggirare i dazi. Nella versione trumpiana, tutto questo avrebbe permesso di abbassare notevolmente la tassazione, un modo per assicurarsi il consenso elettorale, e rilanciare l’economia americana. 

Praticamente nessuna di queste promesse sta avendo successo. Il congelamento dei dazi, soprattutto con la Cina, ma anche con l’Unione europea, i ricorsi collettivi degli impiegati pubblici contro i licenziamenti -accompagnati ora dalle prossime dimissioni dal Doge di Elon Musk, che ne era l’esecutore designato – e la mancata risposta delle aziende private straniere all’invito a trasferire la produzione negli Stati uniti, fanno pensare che ora, per procurarsi la enorme cifra di 4mila miliardi di dollari necessaria per il pagamento degli interessi sul debito e per il funzionamento dello Stato, il Tesoro americano dovrà applicare un interesse maggiore sui prossimi bond: il prezzo da pagare per renderli appetibili, data la crescente sfiducia sulla gestione americana attuale. Per tornare ai temi relativi alla guerra, è interessante notare che circa un quarto, poco meno di 1.000 miliardi, della spesa é destinato al settore militare. Cifra destinata ad aumentare, se il piano di costruire un sistema di difesa del territorio federale sul modello dell’ Iron Dome israeliano, dovesse passare al Congresso: si tratta di altri 175 miliardi di dollari.

La competizione con la Cina era, ed è, il tema di fondo di tutto questo. Già durante il primo mandato, l’attuale Presidente Usa la aveva indicata come il nemico da battere, e la principale responsabile del decadimento americano. Al momento, data la marcia indietro sui dazi, passati in un giorno dal 145 percento al 30, anche questa battaglia sembra perduta. La Rpc, da parte sua, prosegue sulla sua rotta di navigazione, e non é solo simbolico il fatto che abbia ridotto al solo 10 percento i dazi sui prodotti Usa. Pechino ha bisogno di mantenere attivi i canali del commercio globale, poiché, pur avendo dichiarato di voler sviluppare il mercato interno, per rendersi meno dipendente dalle burrasche dei mercati internazionali, ha bisogno dei capitali che le derivano dall’esportazione, per evitare una recessione che la manderebbe in crisi. Per quanto riguarda la guerra combattuta, l’Impero di mezzo continua con la sua linea di tenersi fuori da ogni conflitto, limitandosi ad anodine dichiarazioni di pace. Anche nel recente caso del riaccendersi delle ostilità fra India e Pakistan, entrambe confinanti con le sue frontiere, si é tenuta in disparte. In questo scenario, anche il fatto che l’esercito di Islamabad sia dotato quasi esclusivamente di armi cinesi rimane un fatto solamente commerciale. 

 

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