Di Raffaele Crocco
Il Risiko mondiale si gioca anche sulle parole. Le parole utili a creare consenso attorno alla guerra, per giustificarla e convincere milioni di esseri umani a combatterla e sostenerla. Le parole che creano il nemico, un qualsiasi nemico, figura essenziale per persuadere tutti dell’inevitabilità del riarmo, in nome della sicurezza. Le parole che continuano a raccontare come la fine dei combattimenti voglia dire “è arrivata la pace”. È la bugia di sempre, questa, la menzogna tramandata sui libri di storia e diventata convinzione comune.
In questi giorni, è accaduto di nuovo con la Repubblica Democratica del Congo. A Washington, il 27 giugno 2025, i governi di Kinshasa e di Kigali, cioè quello ruandese, hanno finalmente firmato un accordo che mette fine agli scontri armati. Il Mondo ha gridato “al miracolo”. Il presidente della repubblica congolese ha proposto Trump per “il Nobel per la pace”. Un delirio che ha fatto dimenticare molte cose. Ad esempio, che nel testo in nove punti non si parla mai di rendere giustizia – in un qualsiasi modo – a chi ha subito i crimini di questa lunga, infinita contesa. Gli attori principali, protagonisti dei crimini riconosciuti e ricostruiti da tempo, godono di una totale e pericolosa impunità. Nel documento si parla molto di minerali, l’oggetto del desiderio della guerra, di come verranno estratti, commercializzati e di chi ci guadagnerà. Ma al tavolo, oltre alla giustizia era assente l’altro attore protagonista della guerra: l’M23, l’organizzazione ribelle finanziata dal Ruanda, capace di conquistare larga parte del Nord Est della Repubblica democratica del Congo. Ufficialmente l’assenza è dovuta al fatto che il governo di Kinshasa e la formazione ribelle stanno trattando a parte, dallo scorso marzo. Molti osservatori, però, sostengono che l’M23 continuerà ad essere l’arma impropria nelle mani del Ruanda, utile per tenere sotto scacco la repubblica congolese.
È insomma, una non pace, quella firmata a Washington, utile a gettare le basi per guerre future. E nessuna pace appare all’orizzonte nel Vicino Oriente. Mentre pare tenere la tregua fra Iran, Israele e Usa, nella Striscia, il 2 luglio 2025 le forze armate israeliane hanno avvertito gli abitanti dell’area di Gaza City, nei quartieri di Al-Tuffah, Al-Daraj e nella Città Vecchia, di sgomberare rapidamente. Il comunicato diceva che “le Idf (le Forze Armate Israeliane) stanno operando con estrema violenza nella zona e attaccheranno qualsiasi area utilizzata per lanciare razzi verso lo Stato di Israele”. Intanto, le organizzazioni umanitarie internazionali hanno denunciato l’uso di bombe illegali da parte di Israele. L’esercito israeliano ha utilizzato una bomba da 500 libbre, cioè 230 chilogrammi. Si tratta di una bomba vecchio stile, senza congegni guida. È un’arma terrificante, molto potente. Genera un’onda d’urto dirompente e sparpaglia schegge su un’ampia area, distruggendo tutto. A rivelarlo è la versione on line di The Guardian. Il quotidiano spiega che decine di persone sono rimaste uccise o ferite in settimana durante i bombardamenti israeliani in diverse zone della Striscia di Gaza. I bombardamenti, secondo l’agenzia palestinese Wafa, hanno distrutto le tende degli sfollati ad Al-Mawasi, a Khan Yunis. Non sono stati risparmiati il centro di Gaza city, la città di Deir al-Balah, nel centro della Striscia. In poche ore, le vittime sarebbero state 139, con 487 feriti. Il computo ufficiale dei morti, dall’ottobre del 2023, ha superato i 56mila, ma il numero appare sempre più approssimativo per difetto.
Quando non uccidono le bombe, il governo Netanyahu completa l’opera negando gli aiuti umanitari. Ieri, dal governo israeliano è arrivato l’ordine di negare la consegna di carburante nella zona Nord di Gaza. Si sono bloccati così molti servizi, compresi quelli degli ospedali. Il portavoce dell’Onu, nel corso di una conferenza stampa ha spiegato che “ il rifiuto arriva dopo che era stato consentito all’Organizzazione mondiale della Sanità di consegnare il diesel rimanente all’ospedale Al Shifa di Gaza City, per evitarne la chiusura totale”. Il nosocomio è senza risorse, i pazienti vengono curati sul pavimento per mancanza di letti. “Se le scorte di carburante non verranno integrate rapidamente – ha spiegato sempre il portavoce Onu – Gaza potrebbe affrontare un blackout totale delle comunicazioni, ostacolando gravemente l’accesso e il coordinamento umanitario”. Di fatto, in questo momento, l’85% della popolazione della Striscia non riesce ad accedere agli aiuti umanitari.
In Ucraina, intanto, Kiev vive le ennesime giornate di angoscia, dopo l’annuncio del blocco parziale delle forniture militari statunitensi. Dopo 1.226 giorni di combattimento dall’invasione russa del Paese, la guerra continua a macinare vittime ovunque. Ieri, una donna è morta e due persone sono rimaste ferite quando i detriti di un drone ucraino distrutto sono caduti su un edificio residenziale, nella regione sud-occidentale russa di Lipetsk. Contemporaneamente, le forze armate russe hanno effettuato incursioni in due città, Pokrovsk e Kostiantynivka. Sarebbero centri cruciali per le vie di rifornimento dell’esercito nell’Ucraina orientale. Secondo le agenzie, le forze armate russe stanno effettuando attacchi costanti con l’intento di sfondare le linee di resistenza ucraine.
Segnali pesanti. La situazione militare di Kiev diventa sempre più difficile. Il parziale ritiro statunitense dalle forniture di armi potrebbe essere cruciale. Il Ministero degli Esteri ucraino ha convocato Keith Kellogg, inviato statunitense ad interim a Kiev. Nel colloquio ha sottolineato l’importanza degli aiuti militari statunitensi. Kellogg, da parte sua, ha chiarito che la misura è stata decisa dopo che il Pentagono ha manifestato il timore che le scorte di armi essenziali alla difesa statunitense fossero in fase di esaurimento. Un timore confermato dalla vice portavoce della Casa Bianca, Anna Kelly. L’interruzione, ha detto, è stata decisa “per mettere al primo posto gli interessi dell’America”.