Il sultano alla conquista dell’Africa (1)

Come la strategia di Erdogan si muove dietro il nuovo conflitto che sta interessando la Libia. Con ambizioni più vaste e con l’ennesimo Paese dell’area trasformato in campo di battaglia dalle potenze regionali e non riunite in due coalizioni. Prima puntata

di Alessandro De Pascale*

Da un lato Turchia e Qatar, in campo a sostegno del governo di unità nazionale di Tripoli riconosciuto dall’Onu e vicino ai Fratelli Musulmani, guidato dal presidente Fayez Mustafa al-Sarraj (che gode anche dell’appoggio politico dell’Italia). Dall’altro Russia, Francia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Arabia Saudita, schierati con il generale Khalīfa Ḥaftar e il suo esercito nazionale libico con cui da mesi cerca di conquistare la capitale. A dividere questi due blocchi, economia e politica, quindi la sopravvivenza stessa delle élite che governano alcuni dei Paesi scesi in campo.

«La Turchia ha 25 miliardi di dollari in contratti da tutelare», ricorda Francesco Strazzari, docente di relazioni internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. «Quella turca – continua il professore associato e ricercatore sulla regione – non è una linea a forte propulsione ideologica, quanto piuttosto a forte difesa di uno spazio, non si capisce per ora quanto contenuto, ma che sul tema ad esempio delle infrastrutture sta cercando in Libia di riconiugare la propria linea di espansione commerciale ed economica in tutta l’Africa. Perché parliamo di un Paese che dichiara, per ora in maniera ancora informale, di voler aprire ambasciate in tutti i 42 Paesi africani, entrando in competizione con altre presenze, non da ultimo il Marocco che ha una forte proiezione di business, ma soprattutto la Cina, con cui compete grazie a piccoli commerci, merci a buon mercato e infrastrutture, grazie alle quali è già presente in tutto il Medio Oriente fino all’ex Unione Sovietica».

Il nuovo sultano

In Turchia il lungo dominio di Recep Tayyip Erdogan, ininterrottamente al potere dal 2002, sta iniziando a mostrare qualche crepa. Oltre alle prime scottanti sconfitte elettorali alle amministrative, il suo “sultanato” sta facendo i conti con una preoccupante crisi economica e la recessione è alle porte. Il debito pubblico turco è alto e ci sono rischi persino di liquidità, cui si aggiungono i tassi dei prestiti sempre più elevati e il crollo del mercato azionario. Per farvi fronte, Erdogan punta nuovamente su quella che in passato è stata la locomotiva della propria economia, il braccio della propria influenza economica nell’area e una gamba della sua stabilità politica in patria: il comparto edile e delle infrastrutture. L’appoggio politico di questi settori è fondamentale per la sua stessa sopravvivenza al potere.

Ecco spiegato un altro dei motivi dell’intervento in Siria: la ricostruzione, o forse sarebbe meglio dire costruzione, della zona cuscinetto lungo il confine turco-siriano (una fascia lunga 482 chilometri e profonda 28). Lì l’uomo forte di Ankara mira a ridisegnare l’aspetto urbanistico e sociale della regione. A pagarne il prezzo più alto, sono i curdi che con l’Occidente hanno combattuto e sconfitto militarmente il sedicente Stato Islamico. In quell’ampia fascia di territorio siriano, Erdogan vuole realizzare 140 villaggi in media da 5.000 persone ciascuno, più 10 città da 30.000 abitanti, costruendo 6.000 nuove case dai 250 ai 350 mq con giardino, oltre a ospedali, campi da calcio, moschee, scuole e infrastrutture varie. Il tutto dopo aver lavorato in questi anni a pieno regime, sul suo lato del confine, al Southeastern Anatolia Project (Gap) approvato nel lontano 1982 dalla Turchia: 22 dighe (19 per la produzione di energia) nel sudest anatolico, quasi tutte già realizzate, che stanno già da tempo costringendo i curdi ad abbandonare le loro terre, allagate per formare i nuovi bacini idrici. Con quello che per Save The Tigris, rete di attivisti locali ed europei, sarebbe un uso politico-militare delle acque da parte della Turchia, in un’area di acceso conflitto tra Pkk ed esercito turco, con l’obiettivo finale di controllare i curdi costringendoli a trasferirsi nelle grandi città.

Il sogno di un nuovo Impero

In Africa, come accennato, Ankara ha già un forte impatto come competitor mondiale. «Le capitali africane – sostiene ancora Strazzari del Sant’Anna di Pisa – sono attualmente segnate dalla presenza turca, non dico già nello skyline, ma nei grandi complessi alberghieri e negli aeroporti, nei quali è competitiva rispetto ai cinesi, non fosse altro per il problema della manutenzione. Perché le aziende di Pechino forniscono un’infrastruttura chiavi in mano, ma se poi si rompe qualcosa con loro ripararla non è poi sempre semplice». C’è poi il petrolio: la Turchia è ricca d’acqua ma non di oro nero e con l’annunciata discesa sul campo di battaglia libico, Erdogan cerca il controllo delle fonti di energia del Mediterraneo. Con la sua influenza sta così arrivando a lambire gli antichi confini dell’Impero Ottomano (di cui la Libia, fino al 1912 e prima di diventare colonia dell’Italia, faceva parte). Garantendo appoggio militare a Tripoli, il 27 novembre la Turchia ha portato il governo di al-Sarraj a firmare un memorandum che ridisegna i confini marittimi tra i due Paesi e prevede collaborazioni nello sfruttamento delle risorse marittime.

Come ha dichiarato lo stesso Erdogan, in cima alle priorità dell’accordo c’è l’esplorazione congiunta Turchia-Libia a largo delle coste di Cipro, specchio di mare il cui sfruttamento è da decenni conteso con la Grecia (come la Turchia stessa, Paese membro della Nato). La risposta di Atene non si è fatta attendere: il 2 gennaio nella capitale greca è stato firmato un accordo tra Grecia, Cipro e Israele per la costruzione del gasdotto EastMed e per la difesa di questa infrastruttura che dovrebbe portare verso l’Europa il gas naturale estratto dalle acque territoriali sia di Israele, sia dello Stato insulare di Cipro, dal 1974 in parte occupato e controllato dalla Turchia. Altro punto fondamentale del memorandum, il lavorare assieme allo sfruttamento dei giacimenti scoperti in futuro nell’area.

Il sultano e l’emiro

Alleati. Lo sceicco Tamim bin Hamad Al Thani, emiro del Qatar. Sopra, Erdogan

Il petrolio è però anche uno degli elementi che saldano l’alleanza tra Turchia e Qatar. La prima, come detto, necessita di un approvvigionamento stabile di fonti di idrocarburi e il piccolo emiro del Golfo è tra i principali produttori mondiali di gas liquido. Inoltre, il Qatar si configura come un probabile elemento di propulsione economica dei progetti di Erdogan, il quale al contrario agisce come frontman, sia negli investimenti, sia in campo militare. Un ruolo quest’ultimo, al quale il piccolo ma ricco emirato del Golfo di certo non può ambire, vista la difficoltà incontrata negli ultimi anni nell’assumere anche solo un profilo spiccato e distinto internazionalmente. Accusato di avere rapporti con i gruppi jihadisti, dal 2017 il Qatar è sottoposto al blocco navale, aereo e terrestre da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto. E qui arriviamo alle differenze politiche dei Paesi islamici che fanno parte delle due coalizioni sul campo libico. Alla base della divisione c’è la Fratellanza Musulmana, una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali con un approccio di tipo politico all’islam, protagonista della prima fase delle cosiddette Primavere arabe del 2011. «La Turchia è un Paese che ha sempre sostenuto una modalità di islam politico legato a quello della Fratellanza Musulmana, che gode di un forte appoggio da parte di Ankara, se non addirittura una completa identità», legandola così al Qatar e quindi al governo di Tripoli di al-Serraj, spiega ancora il docente di relazioni internazionali Strazzani.

(prima puntata-segue)

* Giornalista, autore delle schede Iraq e Kurdistan per l’Atlante delle guerre

In copertina: un dipinto che ritrae i sultani ottomani

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