Il voto in Palestina e Israele

Si avvicinano le elezioni per i palestinesi, le prime dopo 15 anni, mentre lo Stato Ebraico (che ha votato quattro volte in 2 anni) resta nell'empasse politica.

Si avvicinano le elezioni in Palestina, le prime dopo 15 anni, mentre Israele (che ha votato quattro volte negli ultimi 2 anni) resta nell’empasse politica caratterizzata dalla forte presenza dell’estrema destra. Per le elezioni palestinesi del 22 maggio (quando si voterà per eleggere i membri del Consiglio legislativo) e del 31 luglio (per eleggere il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese) ci sono vari sono i nodi da sciogliere.

I candidati

La Commissione elettorale centrale ha chiuso la raccolta firme a mezzanotte di mercoledì 31 marzo e ha decretato la rosa di candidati per le elezioni legislative del 22 maggio. Al-Fatah si presenterà con tre liste, mentre Hamas si candiderà compatto con una sola formazione. Tra i candidati poi ci sarà il Fronte popolare della Palestina, guidato da Ahmed Saadat, prigioniero politico dal 2001.

La lista ufficiale di al-Fatah candida Abu Mazen, 85 anni, presidente palestinese dal 2008. Una seconda lista ‘Il Futuro’ è guidata da Mohammad Dahlan (ex dirigente di al-Fatah a Gaza, da anni in esilio ad Abu Dhabi, ma tuttora alla guida di un movimento separatista legato a Fatah).

La vera sorpresa è però la lista collegata a Marwan Barghūthī (leader palestinese in carcere in Israele e condannato a 5 ergastoli per la resistenza durante la Seconda Intifada). Barghūthī, in rotta con Fatah, ha lanciato una lista propria, denominata ‘Libertà’, guidata dal nipote di Yasser Arafat, Nasser al-Kidwa e da sua moglie, l’avvocatessa Fadwa.

Pare che Barghūthīi intenda presentarsi anche alle presidenziali del 31 luglio, contro Abu Mazen. Negli anni ci sono state numerose campagne per la liberazione di Barghūthī. La Reuters ha affermato che la sua figura è assimilata da molti a quella di un “Nelson Mandela palestinese”.

Il Dialogo Nazionale Palestinese

Il 16 e 17 marzo si è svolto a Il Cairo l’ultimo round di colloqui del Dialogo Nazionale Palestinese, al quale hanno partecipato quattordici fazioni palestinesi nel tentativo di superare gli ostacoli allo svolgimento delle elezioni e la divisione interna.

I delegati hanno ribadito la necessità di tenere elezioni a Gerusalemme, Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e in un comunicato diffuso il 17 marzo, si sono detti determinati a far fronte a qualsiasi ostacolo al voto, soprattutto a Gerusalemme Est.

I partecipanti hanno siglato quello che è stato definito un “codice d’onore”, in cui ci si è impegnati a tenere le elezioni in modo libero ed equo, oltre che a garantire trasparenza e integrità. Hanno poi raggiunto un accordo per formare un gruppo palestinese “anti-normalizzazione”, denominato “Leadership nazionale palestinese unificata per la resistenza popolare”. Il gruppo avrebbe il compito di mettere in atto una strategia in grado di contrastare i piani di annessione della Cisgiordania annunciati dall’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

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Nodo Gerusalemme

I palestinesi di Gerusalemme sono per la maggioranza senza cittadinanza israeliana ma non sanno se potranno partecipare alle elezioni dell’Autorità nazionale palestinese.

Dopo che nel 2017 l’ex presidente Usa Donald Trump ha riconosciuto l’annessione di Gerusalemme a Israele migliaia di palestinesi hanno richiesto la cittadinanza israeliana. Secondo Il Manifesto le domande sono state 1.633 nel 2019 e 1.800 nel 2020. Numeri che si sommano alle migliaia di palestinesi già in possesso del passaporto israeliano.

L’opinione dell’European Council on Foreign Relations

Secondo Hugh Lovatt, Policy Fellow per l’European Council on Foreign Relations. “L’Ue ha la rara opportunità di indirizzare positivamente il conflitto. Garantendo il successo di questo imminente processo elettorale, l’Ue può spingere Hamas verso un approccio politico più moderato e verso il sostegno a una soluzione basata su due Stati. Ciò può preparare il terreno per un processo diplomatico inclusivo, sulla via della riunificazione intra-palestinese e di un futuro accordo di pace sostenibile con Israele. Un fallimento, al contrario, porterà ad una linea più dura di Hamas e consoliderà le disfunzioni politiche palestinesi.”

Intanto, in Israele…

In Israele, il 5 aprile, il presidente Reuven Rivlin ha avviato le consultazioni per decidere chi incaricare di formare un governo, dopo che le elezioni del 23 marzo hanno confermato un Paese profondamente frammentato. L’affluenza delle elezioni del 23 marzo è stata del 67,44%, la più bassa dal 2009. Il Likud, il partito di destra del primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi alleati hanno ottenuto 52 seggi in parlamento, mentre le formazioni di opposizione ne hanno raccolti 57. Nessuno dei due blocchi ha raggiunto i 61 seggi necessari per la maggioranza.

Secondo gli osservatori la vera vincitrice di queste elezioni è l’estrema destra. Nella knesset, il parlamento israeliano è infatti entrata l’alleanza tra i partiti di estrema destra HaTzionut HaDatit (Sionismo religioso), Otzma yehudit (Potere ebraico, alla cui guida c’è Ben-Gvir, condannato per istigazione alla violenza), Noam, oltre al partito Casa Ebraica guidato da Naftali  Bennett.

Bennett, come i suoi colleghi dell’estrema destra, ritiene che i territori della Cisgiordania debbano rimanere occupati da Israele. La sua ascesa politica conferma quindi una tendenza già analizzata: a pensarla così è oggi una buona parte di cittadini israeliani.

di Red/Al.Pi.

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