In fuga dalle guerre

I conflitti hanno causato nel 2017 oltre 68 milioni di profughi . Il 52% sono bambini. Cosa dice il rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite nella Giornata del internazionale rifugiato

di Lucia Frigo

Anche lo scorso anno, come tristemente è avvenuto per i cinque precedenti, il numero di profughi di guerra rappresenta un picco mai raggiunto prima, continuando la crescita vertiginosa del trend dal 2012: sono 68,5 milioni le persone costrette dalle guerre e dai conflitti ad abbandonare la propria casa e mettersi in cammino. Le stime sono impressionanti: in un confronto con la popolazione mondiale, si tratta di una persona ogni 110. Lo dice l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr) nel suo rapporto annuale sulla situazione mondiale delle migrazioni forzate nel 2017 pubblicato in occasione della Giornata Internazionale del Rifugiato,

Cosa dice il rapporto

Il Paese da cui proviene la maggior parte dei rifugiati è la Siria, seguita da Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e Somalia. Solo questi cinque Stati producono più del 68% dei rifugiati del mondo, per non parlare dei numeri crescenti che arrivano dalla Repubblica Democratica del Congo, dall’Iraq e dalla Repubblica Centrafricana:. la normale conseguenza di quanto avviene in quei Paesi e che spesso trasforma la vita delle persone – che fuggono da un conflitto o da una persecuzione mirata- nella scelta obbligata di partire per cercare un futuro altrove. Un futuro che in moltissimi casi si trasforma in decenni di vita in un campo profughi, un limbo spesso senza legge e senza i requisiti minimi di igiene, sicurezza e istruzione; cioè senza i requisiti minimi di dignità.
E l’istruzione non è un problema di pochi, dal momento che secondo il rapporto Acnur i bambini costituiscono il 52% di quei 68 milioni e mezzo di profughi. Profughi, ovvero persone costrette a migrare, a mettersi in viaggio; la maggior parte delle migrazioni avviene a piedi, per la durata di mesi. E in questo viaggio sono 173’800 i minori non accompagnati o separati dalle famiglie: ciò significa che oltre allo sforzo fisico, alla malnutrizione e al trauma che questo comporta, i bambini soli sono sempre esposti al rischio di abusi, o di sfruttamento, o di coinvolgimento nei giri della prostituzione minorile o del commercio.

Richiedenti asilo e sfollati interni

Di tutta questa massa di persone, sono pochissimi i richiedenti asilo: contrariamente a quanto si crede in Europa, anche nel 2017 si conferma minuscola la percentuale di rifugiati che inizia il procedimento per ottenere asilo altrove. Sono i Paesi limitrofi, spesso altrettanto poveri o instabili, a costituire il maggior punto di approdo: sono cioè i paesi in via di sviluppo ad ospitare, ad oggi, la maggior parte dei rifugiati: Turchia, Uganda, Pakistan, Libano. Da quest’anno, alla lista si aggiunge il Bangladesh, che ha accolto i Rohingya perseguitati in Myanmar. Come sottolinea il rapporto, questo dato pone problemi enormi: si tratta di Stati che stanno faticando per uno sviluppo sostenibile e che non hanno accesso alle risorse di cui avrebbero bisogno. Stati, cioè, incapaci di prendersi cura di ulteriori affamati, i profughi di guerra. Questo perché la maggior parte della gente in fuga si sposta con la speranza di poter tornare a casa una volta cessata l’instabilità o la violenza o perché teme che le lunghe e complesse procedure impediscano loro di arrivare dove veramente è la meta della loro migrazione. O, ancora, perché in realtà buona parte dei profughi si sposta senza mai uscire dai confini del proprio Stato, semplicemente stanziandosi in grandi città o in regioni meno torturate dal conflitto: diventano cioè Internally Displaced People, sfollati interni. E non per questo ricevono un trattamento di favore: quella degli IDP è una categoria che spesso gli stessi Paesi non riconoscono e che le Organizzazioni Internazionali invece non possono aiutare, essendo obbligate a rispettare il rapporto tra gli Stati sovrani e i loro cittadini.
Quattro rifugiati su cinque scelgono infatti di migrare all’interno del Paese o in Paesi confinanti al proprio, mentre su quel quinto che intraprende un viaggio aereo, per terra o per mare si accanisce la propaganda contro i migranti in Europa e America pur se, per esempio, i flussi migratori nella tratta del Mediterraneo sono diminuiti rispetto al 2016.

Quanto sono i migranti?

Il rapporto quest’anno non è ottimista e le soluzioni proposte sono complicate, dispendiose e delicate, tanto quanto è delicata la storia di ciascuna delle persone di cui si parla. Senza dimenticare che il rischio, parlando solo in termini di numeri e di percentuali, è quello di finire per tralasciare l’identità di ogni rifugiato – di uniformare volti ed esperienze in grafici e mappe che sono utili per capire, ma non sufficienti per fare la differenza nella vita di noi spettatori.
Si tratta inoltre di dati in un certo senso relativi: sia per via dell’inevitabile difficoltà di fare stime in contesti che per loro stessa natura sono complicate; sia per la consapevolezza che il rapporto dell’Alto Commissariato Onu si concentra soltanto sui profughi di guerra, cioè su coloro che scappano da conflitti armati, persecuzioni o situazioni di violenza generalizzata così come riconosciuta nel diritto umanitario internazionale. Ciò significa che, ai numeri da record segnalati dall’Alto commissariato per il 2017, sono da aggiungersi tutti coloro le cui migrazioni forzate sono dovute a disastri ambientali, a landgrabbing o a cambiamenti climatici, come quelli in atto nelle più piccole isole dell’Oceania, che il mare sta sommergendo costringendo intere popolazioni a spostarsi. Senza contare chi emigra per sfuggire alla guerra quotidiana contro la povertà.

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