di Sara Cecchetti
Il primo ottobre il rifugio per sfollati della scuola Abu Bakr Al Siddiq a El Fasher, capitale del Nord Darfur, è stato colpito da un raid aereo. Le vittime accertate sono sei, ma i feriti secondo le stime arrivano fino a 20-30 civili, tra cui anche donne e bambini. L’attacco, avvenuto mentre gran parte dei rifugiati stava facendo colazione, ha completamente distrutto la cucina e danneggiato tende e abitazioni circostanti. Accusate dell’attacco sono le Forze di Supporto Rapido (Rsf), che con tali bombardamenti sperano di spezzare la resistenza delle Forze armate sudanesi (Saf) su El Fascher, ultima roccaforte delle Saf in Darfur. A causa dell’intensità dei combattimenti il Wfp (World Food Programme) spesso costretto a sospendere la distribuzione di aiuti: è stato lanciato un link di registrazione online per i trasferimenti di denaro digitale nel nord Darfur, così da dare supporto alla popolazione anche quando non è possibile l’ingresso dei convogli.
Non è solo l’assenza di cibo a provocare morte. Il Darfur, ad inizio giugno, è stato colpito da un’epidemia di colera: ad ottobre si contano più di 100.000 casi, con circa 2400 morti. Sul piano umanitario il 19 settembre è stato pubblicato un rapporto dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, secondo il quale tra il primo gennaio e il 30 giugno è stata registrata la morte di 3384 civili: uccisioni avvenute principalmente in Darfur e a seguire in Kordofan e Khartoum. Nel rapporto è anche denunciata la morte di 990 civili avvenuta non nel campo di ostilità, ma tramite metodi di esecuzioni sommarie. Viene poi denunciato il continuo ricorso della violenza sessuale come arma di guerra e l’accrescimento della tendenza ad usare droni per colpire siti civili. Di fronte a tale scenario l’intervento internazionale messo in atto fino ad adesso sembra completamente insufficiente: a metà agosto un incontro riservato in Svizzera tra il generale delle Saf Abdel Fattah al-Burhan e un rappresentante statunitense avrebbe dovuto condurre ad un possibile piano per la fine del conflitto.
Sebbene Washington non abbia mai confermato l’incontro, una settimana dopo, al-Burhan avrebbe mandato in pensione alcuni alti ufficiali militari, di cui qualcuno apparterrebbe al movimento politico islamista sudanese, che con l’ex presidente Omar al-Bashir ha governato per trent’anni il Paese. Tuttavia gli ultimi sforzi diplomatici sembrano privi di effetti, il 12 settembre Stati Uniti, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno portato avanti una proposta di pace: è stata chiesta una tregua umanitaria di tre mesi, seguita da un cessate il fuoco permanente che dovrebbe poi permettere un processo politico per far scegliere ai sudanesi un nuovo governo. Il piano proposto sembra però già essere in fase di stallo e i combattimenti continuano ad infuriare; inoltre il rischio di ulteriori escalation etniche-in primis trai gruppi Masalit e le RSF- risulta sempre più forte.






